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Grande festa alla Seghettina per il ritorno delle maestre degli anni '50 |
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LA SEGHETTINA NELL'ULTIMA GUERRA
I generali inglesi
Caro Alex, il latore gode della nostra intera fiducia.
Nei giorni immediatamente successivi l’annuncio dell’armistizio, dai campi e
dalle carceri dove erano detenuti, furono liberati i prigionieri di guerra,
ormai nostri alleati. Nessuno, come invece era stato espressamente previsto
nelle clausole di resa, firmate pochi giorni prima (il 3 settembre, a Cassibile),
si era preoccupato della loro incolumità e ora, senza capi, senza ordini, con
l’esercito in dissoluzione e i tedeschi praticamente padroni dei tre quarti
della penisola, era impensabile organizzare qualsiasi cosa in proposito. I
comandanti dei campi di prigionia si limitarono ad aprire loro le porte e fu
solo grazie all’aiuto delle organizzazioni antifasciste o di singoli cittadini,
che molti ex prigionieri riuscirono a salvarsi, superando la linea del fronte
senza essere catturati dai tedeschi. Fra i tanti che furono aiutati, sono di
passaggio di passaggio nella nostra città anche alcuni alti ufficiali
dell’esercito inglese, liberati, dopo l’8 settembre, dal castello di Vincigliata,
presso Firenze e che grazie all’aiuto dei partigiani romagnoli, in
collaborazione con agenti dell’OSS (Office of strategic service.
L’organizzazione americana che aveva il compito di facilitare la fuga dei
prigionieri alleati e che poi avrà quello di organizzare e coordinare la
resistenza dietro le linee tedesche), riuscirono, dopo un lungo periodo di
clandestinità, a passare la linea del fronte e a ricongiungersi ai propri
reparti. Inizialmente il gruppo comprendeva 11 ufficiali e quattordici soldati.
Fra gli ufficiali più alti in grado: il tenente generale Philip Neame comandante
in capo e governatore della Cirenaica, il tenente generale Richard (Dick) O’Connor,
il maresciallo dell’aria Ower Tudor Boyd, i generali di brigata J. Combe, D.A.
Stirling, E.W.D. Vaugham e E. Joseph Todhunter, il maggiore generale Gambier
Parry, il tenente Thomas Daniel Sixth, conte di Ranfurly, aiutante di campo del
generale O’Connor. Tutti catturati dai tedeschi in Africa del nord e consegnati
agli italiani; eccetto Boyd, costretto ad atterrare per un guasto del suo aereo
in Sicilia.
L’8 settembre 1943 il capitano responsabile del castello di Vinciliata mi annunciò che era stato concordato un armistizio. Chiesi immediatamente di vedere il maggiore comandante del nostro campo prigionieri. Venne la mattina dopo. Gli presentai domanda di restituzione immediata dei nostri abiti, del denaro, della bussole prismatiche, dei gioielli e dei documenti. Mi rispose che nulla poteva fare senza informarne il generale comandante di zona. Insistetti per la riconsegna immediata dal momento che detti effetti erano conservati nel castello ma, per l’inettitudine del maggiore, né il denaro né i gioielli né altro ci vennero mai restituiti. Alle 9 della mattina del 10 settembre un colonnello italiano venne da me per informarmi che il comandante delle truppe italiane, il generale
Chiappe, voleva trasferire immediatamente a Firenze noi e le nostre cose, in modo da evitare che ci catturassero i tedeschi in marcia da Bologna alla volta di Firenze. (…) Tutti noi undici ufficiali e quattordici militari di grado diverso proseguimmo per Firenze. (Da: Autobiografia di un soldato : pagine dal diario del tenente generale Philip Neame. In: La Romagna e i generali inglesi : 19431945 / a cura di Ennio Bonali e Dino Mengozzi. – Milano : Angeli, c1992)
Il 10 settembre, i generali sono sono accompagnati da alcuni militari a Firenze dove è loro intenzione salire sul primo treno diretto a Roma. Condotti al quartier generale italiano, i generali sono informati dal gen. Chiappe che i tedeschi si stanno avvicinando alla città, dove non ci sono forze sufficienti per fermarli e che la strada per Roma è bloccata. Vengono quindi consigliati di dirigersi ad Arezzo, non ancora occupata, che raggiungono in treno. Da lì, su consiglio dei patrioti locali, proseguono verso l’Eremo di Camaldoli, trasportati su due autobus, guidati da ufficiali della polizia, in borghese. Una volta a Camaldoli sono avvisati che la loro presenza è stata segnalata ai tedeschi e quindi indirizzati dal priore del monastero, don Pierdamiano Buffadini, alla Seghettina, dove avrebbero potuto stare tranquillamente nascosti.
Dopo alcuni giorni il maresciallo (sergente maggiore) di polizia venne da Arezzo appositamente per avvertire il priore generale [don Pierdamiano Buffadini] che un colonnello fascista italiano ci aveva traditi ai tedeschi. (…) il priore generale disprezzava i fascisti e odiava i tedeschi. Ci disse che sapeva chi ci aveva traditi e facendo un eloquente gesto come di chi minaccia di tagliare la gola, disse che di quell’individuo si sarebbe occupato in un secondo tempo. O’Connor, Boyd e io decidemmo subito che anche noi avremmo dovuto rifugiarci nei villaggi montani [dove gli altri sette ufficiali e i quattordici soldati, erano già stati indirizzati nei giorni precedenti]. (Da: Autobiografia di un soldato : pagine dal diario del tenente generale Philip Neame. In: La Romagna e i generali inglesi : 1943-1945 / a cura di Ennio Bonali e Dino Mengozzi. – Milano : Angeli, c1992)
Il gruppo partì appena in tempo. Qualche giorno dopo O’Connor e Boyd ritornati all’Eremo per ascoltare Radio Londra, furono quasi catturati dai tedeschi venuti per controllare il monastero.
In otto ufficiali vivevamo a Segeteina [Seghettina], un villaggio a tremila piedi di altezza composti di quattro o cinque casolari e casette coloniche; altri tre dei nostri, invece, vivevano a Straubatenza [Strabatenza], dieci chilometri più in là. I trenta e più soldati erano sparsi qua e là nei dintorni in casette di contadini. (…) Aiutavano i contadini nei lavori: zappavamo, andavamo a prendere l’acqua e spannocchiavano il granturco. Una volta o due la settimana O’Connor ed io andavamo a trovare i nostri uomini nei loro alloggiamenti. (…) Per prevenire gli improvvisi rastrellamenti tedeschi nel villaggio, facemmo costruire nella foresta, a un miglio di distanza, due capannucce di legno in cui tutti andavamo a dormire a turno (…) Spesso venivano segnalate spie tedesche o fasciste e si mormorava di imminenti rastrellamenti. (…) Di una cosa eravamo assolutamente certi: che nessun contadino italiano di queste colline ci avrebbe mai traditi, per denaro o per minacce. Erano tutti antifascisti e filo inglesi e se qualcuno si fosse dimostrato un giuda, i suoi compagni gli avrebbero tagliato la gola. I pochi fascisti erano a tutti noti ed erano tenuti ben lontani da loro. (…) E’ straordinario come la notizia della nostra presenza arrivasse dappertutto, ma mai alle orecchie pericolose. Alcuni ufficiali britannici vennero a trovarmi da Stia, a venti chilometri di distanza. (Da: Autobiografia di un soldato : pagine dal diario del tenente generale Philip Neame. In: La Romagna e i generali inglesi : 1943-1945 / a cura di Ennio Bonali e Dino Mengozzi. – Milano : Angeli, c1992)
Verso la fine di settembre a Seghettina si presentò Bruno Vailati, chiedendo di parlare con l’ufficiale più anziano. Vailati, ufficiale dell’esercito italiano, fuggito da Roma dopo l’8 settembre, si era trasferito in Romagna, a Santa Sofia, a casa dell’amico di studi Torquato Nanni (il 18 settembre). Qui, data la sua conoscenza dell’inglese, fu pregato dal padre dell’amico, Torquato Nanni (omonimo del figlio), noto socialista, di avvicinare i generali per chiedere loro se fossero interessati a mettersi in contatto con gli antifascisti locali, prospettando loro la possibilità di poter passare le linee.
Quando poi accadde l’8 di settembre, io fui immediatamente coinvolto qui a Roma in operazioni antitedesche. Presi l’iniziativa di distribuire armi alla popolazione (…) Io feci quello che potevo come ufficiale dell’esercito. Feci due o tre azioni contro i tedeschi i quali stavano cercando di prendere possesso della città. In particolare condussi un’operazione alla centrale telefonica amplificatrice di via Genova, che io tolsi di mano ai tedeschi. Arrestai una compagnia di tedeschi con un ufficiale e poi accompagnatili al ministero della Guerra, in via XX settembre, mi sentii rimproverare dai pochi ufficiali superstiti (poiché lo Stato maggiore era scomparso) e lo stesso ufficiale tedesco, che era un capitano, mi strinse la mano e mi disse ”Lei è un bravo soldato, però sta sbagliando tutte le scelte poiché non si è reso conto di quanto sta accadendo. Non faccia sciocchezze perché di questo passo, lei andrà veramente nei guai!”. Fatto questo io naturalmente mi resi conto che non si poteva far niente a Roma e andai verso la Romagna, immaginando che laggiù qualcosa avrei potuto fare (…) Arrivato in Romagna (…) credo (…) il 9 o il 10 di settembre, presi contatto coi Nanni che erano i miei conoscenti più prossimi e venni a sapere dal padre Torquato Nanni della questione dei generali (…) Siccome io parlo molto bene l’inglese, essendo nato in Egitto, Nanni mi chiese se volevo prendere contatto con questi generali e compiere un’azione duplice: cioè da un lato cercare di aiutarne l’evasione per creare un credito alla resistenza italiana che in quel momento era ancora da venire e a cui gli alleati non davano assolutamente nessun credito e poi, per compiere un’azione giusta cercando di rimettere in libertà gente che era rimasta prigioniera per aver cercato di combattere il fascismo in Italia. Io quindi accettai l’incarico, andai alla Seghettina, presi contatto con questi generali (…) Saranno stati una dozzina, io penso. (Dall’intervista di Roberto Maltoni a Bruno Vailati. Roma, 1976 -ISRFC 3/14 1539)
Secondo le istruzioni ricevute dal Nanni, mi misi alla ricerca del gruppo. Pochi giorni dopo, il 21 settembre, (…) scorsi sull’aia di una casa colonica due strani contadini, uno con grossi baffi biondi, l’altro con gli occhiali, entrambi in calzoni corti. Rivolta loro la parola in inglese, cercai di guadagnare la loro fiducia e, superata una certa diffidenza iniziale, venni invitato in casa, dove altri quattro o cinque inglesi stavano attorno al fuoco. (…) davanti a me, grigio, quadrato e gioviale, vestito da sciatore, era il maresciallo dell’aria Boyd, che atterrò forzatamente in Sicilia nel 1940. Al suo fianco, candido di baffi e capelli ma con viso roseo da bambino, era il tenente generale O’Connor, comandante supremo in Egitto nel 1940. Più vicino al fuoco, il maggiore generale Gambier Parry (…). Semicoricati su due panche, il generale di brigata Sterling (…) che soffriva continuamente per un’ulcera gastrica, e il pari grado Vaugham, rimasto zoppo durante l’altra guerra. I due incontrati sull’aia, poco prima, erano i generali di brigata Hunter, che parlava correntemente l’italiano (…) e Combe (…) In un angolo, alto due metri e timidissimo, il conte Ranfurly, campione internazionale di tennis, aiutante di campo di O’Connor e uno dei più bei nomi dell’aristocrazia britannica. (…) Poco dopo rientrò quello che tutti mostravano di riconoscere per un comandante il tenente generale Neame, più anziano di O’Connor e perciò il più autorevole. (Da: La fuga dei generali raccontata da Bruno Vailati. In: I generali inglesi clandestini a Cervia / Giovanni Vicari. – Verucchio : Pazzini, 1990)
A questo punto gli chiesi [a Vailati] se ci fosse la possibilità di raggiungere la costa, a ovest verso Livorno o ad est verso Ancona e quindi di imbarcarci su un peschereccio. Sfortunatamente ne sapeva poco e mi disse che sarebbe stato troppo difficile e pericoloso. Alla luce dei fatti successivi è certo che a quell’epoca avremmo potuto riuscire facilmente nell’impresa: tre mesi dopo tre dei nostri riuscirono a scappare in questo modo e in circostanze molto più difficili. (…) Alcuni giorni dopo, da Santa Sofia (…) vennero a trovarmi il signor Nanni (…) e suo figlio. (…) Ci accordammo per mandare Bruno Vailati al Sud, attraverso le linee tedesche, per portare un mio messaggio al generale Alexander [Harold George] o al generale Montgomery [Bernard Law]. (Da: Autobiografia di un soldato : pagine dal diario del tenente generale Philip Neame. In: La Romagna e i generali inglesi : 1943-1945 / a cura di Ennio Bonali e Dino Mengozzi. – Milano : Angeli, c1992)
Egli [Neame] approvò il mio progetto di attraversare il fronte, accreditato da un suo messaggio, allo scopo di ottenere dagli alleati aiuti per l’organizzazione partigiana, e concordare al tempo stesso un piano di salvataggio del gruppo. (…) Tornai alla Seghettina varie volte, successivamente, con muli carichi di rifornimenti vari. (…) Mi recai col maresciallo Boyd sulla vetta di San Paolo in Alpe (…) per esaminare la possibilità di farvi atterrare un aereo di soccorso. La cosa risultò inattuabile. (…) Qualche giorno dopo presi gli accordi finali, mi fu rilasciato un messaggio così concepito:
Caro Alex, il latore gode della nostra intera fiducia. E’ un ufficiale italiano, alto, bruno, coi capelli ondulati, con una piccola cicatrice sotto l’occhio destro e una cicatrice rotonda da bruciatura sull’interno dell’articolazione del braccio sinistro. Le sue proposte si considerino fatte da noi. Cordialmente, Lt generale Philip Neame. Caro Monthy, il tuo genero è passato ieri di qua. Dick e Boydo, e altri ancora sono con me. Spero vederti presto. P.N. Caro Alex, sono con noi anche Pip, Jhon, e Todd, cordialmente Dick. Stiamo tutti benone, saluti cordiali Boydo. (Da: La fuga dei generali raccontata da Bruno Vailati. In: I generali inglesi clandestini a Cervia / Giovanni Vicari. – Verucchio : Pazzini, 1990)
Lì incominciò tutta l’operazione di salvataggio di questi generali che durò abbastanza a lungo e che fu molto complessa. (…) Io il quindici di ottobre (…) o forse il cinque di ottobre, incomincia un viaggio per attraversare il fronte portando un messaggio di questi ufficiali (…) per il generale Alexander (…) attraversai il Paese (…) coi mezzi più vari: arrivai a Roma, da Roma andai ancora verso sud, verso Frosinone e Cassino (…) E’ facile immaginare tutto quello che poteva accadere ad un uomo che da solo si proponeva un compito di questo genere, in mezzo a una tale confusione dove in cui nessuno sapeva mai chi fosse amico o nemico e arrivai (…) nei pressi di Cassino. (…) verso Piedimone d’Alife, nella Campania, traversai le linee, fui accompagnato a un reparto di intelligenza militare che si chiamava “A” Force, il cui compito era quello di aiutare la liberazione dei prigionieri di guerra che fossero evasi (…) Lì mi fu affidato un piano di salvataggio in due versioni (…) che doveva sostanziarsi nell’imbarco di questi generali al largo di Cervia, alla foce del fiume Savio. C’erano due appuntamenti previsti: uno per il 24 di novembre e uno per il 28 di novembre se il 24 non fossero venuti i sommergibili o le imbarcazioni rapide con cui gli alleati si proponevano di recuperare questi generali. (Dall’intervista di Roberto Maltoni a Bruno Vailati. Roma, 1976 – ISRFC 3/14 1539)
In attesa del ritorno di Bruno Vailati, Torquato Nanni si recò più volte alla Seghettina per far conoscere ai generali alcuni esponenti dell’ULI. Un giorno presentò loro anche Leandro Arpinati, suo amico personale. Arpinati era stato a capo dello squadrismo dell’Emilia-Romagna, quindi vicepresidente nazionale del partito fascista e sottosegretario degli interni ma, caduto in disgrazia, nel ‘33 era stato estromesso dal partito e da allora, non aveva, praticamente, più avuto rapporti con il fascismo, se non pochi giorni prima, il 7 ottobre, quando Mussolini lo aveva invitato alla Rocca delle Caminate per offrirgli di partecipare al governo della nuova repubblica e lui aveva rifiutato.
In diverse occasioni il sig. Nanni portò da me dei leaders politici dell’Unione laborista italiana [Unione dei Lavoratori Italiani]. Tutti si dimostrarono degli ottimi amici. Fra loro c’era Spazzoli [Antonio], uno dei legionari di D’Annunzio (…) c’era Spada [Pietro (Rino)] (…) capo politico e fanatico antifascista; e c’era il maggiore Tilloy [Giusto Tolloy], ufficiale dello stato maggiore italiano ed ex aristocratico, che per il bene dell’Italia si era legato al partito socialista. (…) Spada aveva una personalità travolgente ed alti ideali politici. Secondo me era il capo dell’Uli in questa provincia e (…) era pronto a sacrificare la propria vita. Fra tutti gli italiani che ho incontrato, considero Spada fra i migliori per quanto riguarda personalità, capacità, integrità di carattere e ideali. (…) L’Uli diede a noi e a molti altri prigionieri di guerra britannici e americani un aiuto enorme in denaro, vestiario, scarpe e cibo, cose queste impossibili da ottenere con i normali mezzi. Qualsiasi cosa io dica non è mai sufficiente per elogiare la sua generosità, la sua efficienza e il suo coraggio. (…) Nanni portò da noi anche il signor Arpenati [Leandro Arpinati], ex ministro degli affari interni del governo Mussolini. (…) Mi diede informazioni dettagliate sul recente colloquio fra Mussolini e Hitler e su una lite fra Rommel e Kesselring nella quale Rommel aveva avuto la peggio; nello stesso tempo fornì informazioni sulle idee di Hitler e dei Generali tedeschi sulla futura campagna d’Italia. Aveva avuto queste informazioni direttamente da Mussolini solo tre giorni prima, quando quest’ultimo cercò di persuaderlo a tornare al governo “neo fascista”. Venne diritto a riferire il tutto ai “generali britannici” con l’intenzione, credo, di tenere un piede in due scarpe. (Da: Autobiografia di un soldato : pagine dal diario del tenente generale Philip Neame. In: La Romagna e i generali inglesi : 1943-1945 / a cura di Ennio Bonali e Dino Mengozzi. – Milano : Angeli, c1992)
I tre arrancavano sul tratturo di Ridracoli, preceduti dalle cavalcature, che avanzavano a testa bassa (…) Le conduceva un anziano montanaro taciturno (…) Era stato lui, con brevi parole, a suggerire ai tre uomini di fare a piedi il tratturo fino al Mulino della Teresona “per risparmiare gli animali”, aveva detto. (…) “Appena due ore di cammino”, aveva aggiunto. (…) Il tratturo era largo tanto da consentire il transito dei rustici carri a slitta dei montanari, i tre potevano procedere affiancati: Tarchi [Giusto Tolloy] in mezzo, dominante col suo metro e novanta d’altezza, il pizzetto nero e gli occhi tondi dietro gli occhiali spessi da miope (…) Alla sua destra Ceschi [Antonio Spazzoli], più del solito ingobbito e quasi intirizzito dall’aria frizzante del mattino (…) A sinistra Sala [Pietro (Rino) Spada], che in parte ascoltava e in parte si guardava attorno. (…) Il Mulino della Teresona non era più da tempo un mulino, ma una rustica trattoria, e i tre entrarono. Vanni [Torquato Nanni] ancora non c’era. (…) mentre mangiavano, Sala si rivolse a Ceschi e gli chiese: “Si può sapere cosa c’entriamo con questi generali?” L’altro rispose pacato: “Non è che c’entriamo. Lo sai che lassù ci sono ebrei, qualche perseguitato politico, diversi disertori: tutta gente che in mano ai tedeschi finirebbe al muro, e che noi aiutiamo con viveri e nascondigli. Quando con l’armistizio, si sono riversati sui monti i prigionieri di guerra alleati, essi pure braccati dai tedeschi, potevamo dire: “Agli altri sì, a voi no?” E così è stato per i generali inglesi, ai quali abbiamo procurato un rifugio alla Segatina [Seghettina] e inviato come agli altri farina di granturco e coperte. (…) Vanni, per suo conto, deve avere pasticciato mica male… tant’è vero che ha portato fin lassù il suo amico Arpinati, senza neppure avvertirci. Ma Vanni, purtroppo, non è dei nostri: per noi è solo un intermediario. Per il resto è libero di fare ciò che vuole.”(…) Vanni entrò, con l’aria di uno che entra in casa sua. (…) Non ci furono presentazioni: si conoscevano lui e Ceschi, e tanto bastava. (…) Ora cavalcavano in fila indiana, lungo la stretta mulattiera che si addentrava come una trincea nella montagna. (…) Così cavalcando passarono le ore. (…) Era quasi mezzogiorno, quando da un cespuglio sopra la mulattiera qualcuno vide sporgere la canna di un mitra. “Alt!” gridò Vanni. (…) Da dietro un cespuglio uscì e si calò dal costone un ometto sui cinquant’anni, piccolo, dagli occhi chiari, i capelli biondi pettinati con la riga (…) Vanni lo presentò ai giovani con un gesto e un inchino: “Generale O’Connor, comandante dell’armata del deserto.” I tre chinarono il capo in segno di saluto e l’uomo fece altrettanto con un sorriso mite; poi col mitra fece cenno di seguirlo. (Sempre preceduti dal generale O’Connor, entrarono in uno stanzone con un enorme camino acceso, intorno al quale sette otto uomini, tutti vestiti miseramente, ma tutti rasati con cura, al loro ingresso si allinearono, quasi sull’attenti. Proseguirono fino a una porticina, alla quale O’Connor bussò. Rispose da dentro un breve comando, ed egli spinse la porta di una stanzetta nuda, con alcune seggiole annerite e una cassa d’imballaggio. Davanti alla cassa, curvo sopra una carta geografica, stava un uomo poco più alto di O’Connor, anch’egli biondo e pettinato con la riga (…) e coi baffetti tagliati con cura. Al loro ingesso si fece incontro al gruppo con un sorriso, mentre O’Connor diceva (…) “Sir Philip Neame, comandante di ottava armata.” (…) Egli parlava un buon francese, che pronunciava lentamente (…) il generale spiega che per lui è assolutamente necessario (…) comunicare al più presto col comando supremo alleato (…) egli è in possesso di informazioni segrete tanto importanti, che in nessun caso potrebbero essere affidate ad altri. (…) E a questo punto, quasi incidentalmente, chiede notizia di Villani [Bruno Vailati], che Sala sente nominare per la prima volta. Egli apprende così che un ufficiale italiano (…) è partito per il sud con una lettera autografa di Sir Philip Neame per Montgomery (…) Ceschi spiega che quella di Villani è stata un’iniziativa di Vanni e dei generali (…) Comunque di Villani non si è saputo più nulla, e il generale è deciso a rompere gli indugi: egli partirà per il sud con O’Connor, e conta sul loro aiuto. Gli occorrono documenti falsi, denaro, guide, punti di appoggio. (…) Sala afferma deciso che in quella faccenda non si deve rischiare un sol uomo: quindi niente guide, né punti d’appoggio. Si può vedere per i soldi e i documenti, ma anche per questi ci vuole tempo. (…) tutto ciò viene esposto al generale (…) “Capisco. Ma io ho il dovere di informarvi che dalla vostra decisione può dipendere la sorte di milioni di italiani.” (…) Sala dice che non si può giocare a moscacieca con la vita dei compagni. Se ci sono segreti così importanti, il generale li tiri fuori, poi si deciderà. (…) “Lo prevedevo”, dice “ per questo ho deciso di informarvi (…) [Mussolini] ha chiacchierato parecchio. Tra l’altro ha detto che Hitler, se non riesce a fermare il nemico sulla linea gotica, farà saltare gli argini del Po e allagare l’intera valle padana. (…) come vedete, è molto importante per voi italiani.” I tre si guardano sbalorditi, poi Tarchi scuote il capo incredulo, mentre Ceschi mormora: “Il Po per dieci mesi all’anno è in magra, e quando è in piena gli argini li rompe da sé.” (…) “Io gli dico che, se i tedeschi hanno deciso di far saltare gli argini del Po, non si vede come il comando alleato, anche se informato, possa impedirlo. Perciò, se non c’è altro, la nostra linea di condotta resta immutata.” Gli altri due sono d’accordo, e il discorso viene ripetuto al generale, che resta impassibile. Se è deluso non lo dimostra. (…) Il commiato è semplice, ma con una punta d’amarezza. Ognuno avrebbe voluto fare di più, dare di più, dire di più. Ed è con un senso inespresso di malinconia che i tre giovani riprendono la via del ritorno. (Da: 1943-45 : storie ai margini della storia / Anonimo Romagnolo [Pietro (Rino) Spada]. – Milano, 1984)
Le visite di Nanni alla Seghettina non passarono inosservate.
Un ex maggiore fascista di Santa Sofia, che si recava al villaggio per affari,
lo incontrò mentre era insieme ad alcuni generali e lo denunciò ai tedeschi. Il
villaggio, pochi giorni dopo è circondato. Fortunatamente, gli abitanti, messi
in allarme dall’insolito movimento di automezzi lungo le strade, avvisarono in
tempo gli ex prigionieri che riuscirono tutti a mettersi in salvo.
I generali inglesi fuggiti dal castello di Vincigliata a Camaldoli opera di
frate Leone [Checcacci], la soffiata e la fuga da Seghettino, dati in consegna a
Beoni Francesco classe 1927 giovane scaltro e guida eccezionale fra i suo[i]
monti nessuno lo batteva, fuga dalla Segettina per un soffio, via in mezzo alla
foresta nessuno voleva i generali perche con loro arrivavano anche i nazisti
sulle loro tracce ed erano guai seri (…) i tre rimasero nascosti nella foresta
di Campigna in una capanna di legno (…) la casa [della famiglia Beoni] fu
circondata le spie erano arrivate anche a Ridracoli, Francesco [Beoni] si getto
nella scarpata ruzzolando la mitragliatrice lo feri ad un braccio e una gamba,
riusci a salvarsi grazie al aiuto di una pattuglia del 8’ brigata Garibaldi (…9
la casa incendiata e distrutta, Beoni aveva fatto da guida ai generali
portandoli sui monti a fano, 3 giorni e due notti di cammino fra pericoli ed
insidie a non finire (Vittorio (Quarto) Fusconi – manoscritto 2004)
Nello stesso tempo, la notizia della presenza dei generali in Romagna era giunta, attraverso un camaldolese di passaggio, sino ai monaci di Fonte Avellana e da questi era stata riferita all’ingegner Ruggero Cagnazzo, di Pesaro, noto per avere già aiutato altri ex prigionieri britannici. Cagnazzo, accompagnando alcuni ufficiali inglesi ed un gruppo di ebrei, di cui aveva organizzato la partenza su di un motopeschereccio, raggiunse Termoli e quindi Bari, dove si mise in contatto con la centrale di controspionaggio, la stessa che sarà contattata da Bruno Vailati, qualche giorno dopo. Trasmessa la notizia della presenza dei generali alla Seghettina, Cagnazzo concordò un piano di salvataggio e al suo ritorno fu accompagnato da due ufficiali inglesi James Tuill Ferguson e Spooner, che parlavano italiano e che avrebbero dovuto collaborare con lui. Passate di nuovo le linee Cagnazzo si recò a Camaldoli.
Io, O’Connor, Combe e Ranfurly ci apprestammo ad intraprendere una marcia di cinque ore attraverso i monti di Strabautenza [Strabatenza]. Il 31 ottobre ci sistemammo in una fattoria (…) e un’ora dopo il nostro arrivo ricevetti una stupefacente lettera del priore generale del monastero dell’Eremo. Proprio quando sembrava che le nostre fortune volgessero al peggio, ci si apriva uno spiraglio di speranza. (…) la mattina dopo, prima dell’alba, riprendemmo la marcia per trenta miglia fra le montagne alla volta del Monastero di La Verna. Dopo sette ore di marcia, sotto la guida di Maurizio [Milanesi], il mugnaio di Straubatenza [Strabatenza] arrivammo al monastero. A La Verna ci concedemmo un ben meritato pasto e subito dopo arrivò il signor Cagnazzo, con una macchina piena di biciclette. (Da: Autobiografia di un soldato : pagine dal diario del tenente generale Philip Neame. In: La Romagna e i generali inglesi : 1943-1945 / a cura di Ennio Bonali e Dino Mengozzi.
– Milano : Angeli, c1992) I generali si divisero in due gruppi, i tre superiori di grado seguirono Cagnazzo, gli altri restarono nella zona della Seghettina, dove poi verranno in contatto con le prime formazioni partigiane del nostro appennino.
Sull’imbrunire decisi di rientrare nell’ampia cucina della casa che doveva ospitarmi. Accanto al focolare, su cui ardevano alcuni grossi ceppi, vidi seduti due partigiani ed accanto in piedi, con la destra appoggiata alla mensola del camino e nella sinistra la pipa, un signore alto e distinto. Mi avvicinai per riscaldarmi e conversare. Dopo la semplice buona sera, primo a rompere il silenzio fu il signore distinto. Tra le varie cose mi chiese qual era il mio grado di ufficiale, ed udito che ero sottotenente, aggiunse di essere lui tenente. Da alcuni mesi si trovava su quei monti in attesa di allacciare contatti con il Comando inglese e di cogliere il momento opportuno per partire. Ed era giunto appunto il tempo della sua partenza. Sarebbe partito quella stessa sera. I due partigiani dovevano fargli da guide nel lungo cammino seguendo il crinale dell’Appennino fino a Pescara, dove sarebbe stato prelevato da una imbarcazione. In seguito venni a sapere che faceva parte di un gruppo di ufficiali fatti prigionieri ed internati nel castello di Vincigliata, presso Firenze, da dove erano fuggiti dopo l’armistizio e rifugiatisi su quei monti. Il tenente inglese era un conte: conte Ranfurly. (Ricordi / di Salvatore Resi -dattiloscritto -San Piero in Bagno 1998)
… da lì sono passati dei generali, c’era un ammiraglio… sono stati un po’ di giorni con noi in montagna e poi sono stati accompagnati nelle Marche, dove si sono imbarcati. Il primo lancio [di armi e materiali] lo abbiamo avuto tramite loro, poi doveva esserci anche il secondo... (Armando Gardini – dattiloscritto 1983)
Il gruppo guidato da Cagnazzo, il 2 novembre, raggiunse Cattolica, dove trovò rifugio nella casa di campagna del maggiore Giusto Tolloy, che conosceva Cagnazzo per aver già collaborato con lui nella fuga del gruppo precedente. L’appuntamento con la barca che avrebbe dovuto portarli al sud era previsto per quella notte stessa ma non si presentò nessuno.
Sala [Pietro (Rino) Spada) arrivò nella villetta di Tarchi [Giusto Tolloy] a Cattolica (…) “Immagina chi è venuto stamattina: l’ingegner Gavazzo [Ruggero Cagnazzo].” “Gavazzo? Ma non è al sud?” “E’ tornato. Ha attraversato le linee con un certo capitano Fergusson, esperto di segnalazioni. Devono portare al sud dei personaggi, che stanotte un sottomarino verrà ad imbarcare qui.” “All’anima dei personaggi: un sottomarino apposta! E non ti ha detto chi sono?” “Lui non me lo ha detto e io non glie l’ho chiesto? (…) Aveva un’aria da congiurato…” (…) Tarchi (…) entrò scuro in volto. “Gavazzo bisognerebbe fucilarlo!” esplose appena chiusa la porta. (…) “hanno un appuntamento stanotte all’una, un paio di miglia al largo di Gabicce (…) Hanno pensato a tutto: perfino alle segnalazioni in mare per il sottomarino… e non hanno la barca! (…) Per Gavazzo era tutto facile: Andiamo in spiaggia, prendiamo la prima barca… E’ stato vent’anni sulla costa e non sa che chi lascia la barca in spiaggia, per prima cosa porta via i remi. Quando gli ho chiesto come fa senza remi, mi ha guardato smarrito…” (…) Non è che ci sia molto da scegliere. O li lasciamo a sbrigarsela da soli, e allora di qui bisogna sgomberare subito, perché se stanotte li pigliano i tedeschi, questa casa prima di domattina è rasa al suolo. Oppure ce ne occupiamo noi: ma in questo caso dobbiamo essere preparati a tenerceli sul gobbo, chissà fino a quando, perché se il sottomarino non viene…” (…) “D’accordo” disse. Poi rivolto a Sala aggiunse: “A patto però che tu resti con noi.” “Va bene”, rispose Sala. “Ma solo per stanotte.” Gli dispiaceva, ma sapeva che non avrebbe potuto abbandonarli in quella assurda situazione. (…) “Cercherò di fargli trovare per stanotte una barca in spiaggia, possibilmente sotto Gabicce. ”Mentre si avviava, Alda gli gridò dietro: “Mi raccomando i remi!” Era di nuovo serena, e sala la lasciò per salire disopra. Lo stupore dei generali quando comparve fu quasi comico. (Da: 1943-45 : storie ai margini della storia / Anonimo Romagnolo [Pietro (Rino) Spada]. – Milano, 1984)
C’erano barche a remi ma niente scalmi: erano stati rimossi tutti. Ero piuttosto contrariato per il fatto che questi dettagli erano stati trascurati. Fabbricammo provvisoriamente degli scalmi con corda e bastoni e andammo sulla spiaggia alle 10 di sera, evitando le pattuglie dei carabinieri. Spingemmo le barche in acqua e remammo fino al largo del porto di Cattolica (…) era in quel punto che doveva arrivare da Sud un peschereccio italiano. (…) Restammo in mare per ore, ma non riuscimmo a vedere un solo cenno. (…) tornammo alla spiaggia lottando coi remi contro il vento e contro la corrente. Non riuscimmo a riportare la barca al posto giusto ed eravamo molto preoccupati per quello che sarebbe accaduto la mattina, quando si sarebbero accorti della sua mancanza. Tornammo a casa di Tilloy [Tolloy] e restammo nascosti. (Da: Autobiografia di un soldato : pagine dal diario del tenente generale Philip Neame. In: La Romagna e i generali inglesi : 1943-1945 / a cura di Ennio Bonali e Dino Mengozzi. – Milano : Angeli, c1992)
... nel buio si allinearono, un’ora prima del coprifuoco: Tarchi in testa con Gavazzo e Fergusson, che dovevano fissarsi in mente i punti di riferimento per il ritorno; seguivano, a una ventina di passi, il vice-maresciallo Boyd con aria disinvolta e la pipa in bocca, accanto al frate bianco, chino a parlottare con O’Connor, chiudevano la marcia a distanza Sala e il generale Neame (…) Tarchi condusse Gavazzo e Fergusson fino alla barca (…) si fermarono un attimo a guardare il mare (…) e Tarchi disse: “Non potreste avere un mare migliore.” (…) “Vedrai che partono”, disse Tarchi. “Le condizioni sono ideali.” (…) Fui svegliato di soprassalto dal suono insistente del campanello e da furiosi colpi alla porta (…) erano le tre (…) chi poteva essere se non i tedeschi? Per i fuggiaschi c’era la porta socchiusa didietro. (…) [Sala] balzò dal letto e come un automa, così mezzo nudo com’era, andò ad aprire. Fu risospinto nel corridoio e quasi travolto dal gruppo dei fuggiaschi, che s’introdusse d’impeto, con Gavazzo che strepitava: “perché avete chiuso la porta didietro?!” Sala li guardava incredulo, stordito (…) Si era precipitato ad aprire (…) con la certezza di trovare davanti all’uscio i mitra dei tedeschi (…) E ora invece avvertiva come in sogno il gelo bagnato di quegli uomini inzuppati (…) Fu solo quando li vide denudarsi in cucina tremanti di freddo, ognuno chiuso in un amaro silenzio, che si riscosse e li raggiunse. (…) il racconto corrucciato di Gavazzo gli giungeva solo a tratti (…) l’interminabile attesa al largo… i segnali luminosi… il vento improvviso… il mare che comincia a ingrossare… infine la barca capovolta alla deriva, con loro aggrappati intorno… (…) adesso è mezzogiorno. I fuggiaschi sono nascosti nello studio, dove poco prima l’Alda ha portato una terrina colma di maccheroni. Tarchi e la moglie, con Sala e i bambini, sono a tavola in cucina. I tre seduti pensano in silenzio alle stesse cose: al mistero della porta chiusa, alle chiacchiere in paese per la barca capovolta alla deriva di cui i tedeschi ancora non sanno, ma presto sapranno, a quei sei di sopra, che stanotte dovranno ripetere l’appuntamento. (…) il maschietto, dall’alto dei suoi sei anni, parla con aria d’importanza: “La mamma è scema (…) Stanotte sono sceso a bere, c’era la porta senza catenaccio! Solo una scema, con tutti quei ladri che ci sono in giro…” I tre si scambiano un’occhiata di sollievo. (Da: 1943-45 : storie ai margini della storia / Anonimo Romagnolo [Pietro (Rino) Spada]. – Milano, 1984)
Lo stesso accadde la notte successiva. Il tentativo con la barca essendo chiaramente irripetibile nessuno parlò più di tornare in mare. Dopo pranzo Tarchi andò con Fergusson sotto Gabicce e scoprirono un anfratto sul promontorio, da dove i segnali sarebbero stati visibili solo dal largo (…) il sottomarino non arrivò mai, ed essi rimasero nella villetta di Tarchi. (Da: 1943-45 : storie ai margini della storia / Anonimo Romagnolo [Pietro (Rino) Spada]. – Milano, 1984)
… quella notte tornammo alla spiaggia e stemmo lì seduti sotto la pioggia gelata tutta la notte, nella speranza che questa volta la motonave sarebbe arrivata come d’accordo. Per un breve periodo, prima delle 11 di sera, udimmo al largo il battere del motore; solo io pensai che dovesse essere la nostra nave che arrivava. Non ci fu nessun segnale (…) Ferguson e Cagnazzo andarono fino al limite esterno del porto e di lì fecero una serie di segnali ai quali non fu data risposta dal mare. (…) tornanmmo a casa di Tilloy [Tolloy] (…) adesso dovevamo preoccuparci di trovare un nascondiglio (Da: Autobiografia di un soldato : pagine dal diario del tenente generale Philip Neame. In: La Romagna e i generali inglesi : 1943-1945 / a cura di Ennio Bonali e Dino Mengozzi. – Milano : Angeli, c1992)
Il 6 novembre, Vailati, di ritorno dal sud, raggiunse i
generali a Cattolica ed espose loro il nuovo piano concordato con la “A” Force,
che prevedeva l’imbarco su di una nave di fronte alla foce del Savio. Le date
previste erano il 24 e il 28 novembre. Quindi Vailati si recò a Cervia per i
preparativi, mentre i generali, al seguito di Spada, si rifugiarono in campagna,
nella cappella del conte Spina.
Questa la situazione che io incontrai al mio rientro in Romagna, il 6 novembre
1943. Il generale Neame, il maresciallo Boyd e il generale O’Connor mi accolsero
con calorosa cordialità (…) Illustrato loro il piano del quale ero latore,
partii quasi subito alla volta di Cervia, poiché avevo a disposizione poco più
di due settimane per i preparativi. Appoggiatomi ad elementi della resistenza
locale, mi resi subito conto delle grandi difficoltà (…) L’intera foce del Savio
era stata attrezzata per la difesa antisbarco, e la pena di morte era comminata
per chiunque si avvicinasse senza autorizzazione. (Bruno Vailati in: I generali
inglesi clandestini a Cervia / Giovanni Vicari. – Verrucchio : Pazzini, 1990)
Subito dopo ce ne andammo da Cattolica col signor Spada (…) per rifugiarci in una cappella annessa a una fattoria, in campagna. (…) Spada aveva preso accordi col parroco locale per farci stare qualche giorno. Passammo vicino ad una stazione di carabinieri lungo il cammino: Spada scambiò con loro battute di spirito mentre noi passavamo indisturbati. (Da: Autobiografia di un soldato : pagine dal diario del tenente generale Philip Neame. In: La Romagna e i generali inglesi : 1943-1945 / a cura di Ennio Bonali e Dino Mengozzi. – Milano : Angeli, c1992)
Mentre i generali sono al sicuro nella cappella del conte
Spina, Spada e Tolloy, a Cattolica, cercano di affittare una barca. I due, prima
di passare definitivamente la mano a Vailati e all’OSS, vogliono provare ad
organizzare un tentativo per conto proprio. Se fosse riuscito, il merito sarebbe
poi stato tutto dell’ULI. Ma a trovare un’imbarcazione adatta ci volle tempo e
una volta perfezionato l’accordo con il proprietario, scoppiò una tempesta che
rese impossibile la partenza e all’ultimo momento, sembra, anche il capitano che
era stato contattato, ci ripensò e si tirò indietro. Nel frattempo i tedeschi
avevano chiuso il porto di Cattolica e la fuga, da quel momento, divenne
impossibile. La presenza dei tre fuggiaschi intanto fu notata e il conte,
proprietario della cappella, li fece avvertire di andarsene al più presto e
forse, fu proprio lui stesso, per non correre ulteriori rischi, a segnalarli ai
tedeschi. Partirono in bicicletta la mattina del 16 novembre, diretti a Cesena,
dove vennero rifocillati a casa di Otello Magnani e passarono la notte nella
casa dell’avvocato Alberto Comandini. Comandini, esperto fotografo, quella notte
fece anche le fotografie che poi serviranno a fabbricare loro dei documenti
falsi. Il giorno dopo il gruppo ripartì, sempre in bicicletta, per Forlì,
guidato da Werther Ferrini.
… c’era Comandini Alberto (...) che prese in casa i generali inglesi. (Ferruccio
(Rino) Biguzzi 1999)
I tre generali… l’episodio è subito... è fatto, io me lo son letto e ci sono rimasto male. Spada mi dice con me “Werther ci sono tre generali che noi dobbiamo… in un certo qual modo… noi dobbiamo… per avere un po’ la possibilità di non avere bombardamenti a Cesena (…) noi dobbiamo portarli in salvo questi generali e abbiamo bisogno un po’ della collaborazione di tutti. Siccome a Forlì c’è una zona bene organizzata ti sentiresti tu di portarli questi tre generali?”. Avevano imparato sì e no…, Andavano sì e no in bicicletta… si figuri lei, parlavano una parola in italiano, un po’ di francese, che io capivo e non capivo. Un po’ andavamo... un po’ a tasti ecco, un po’... E appunto partii da Cesena che non era buio... non posso neanche dire la data, la data precisa, però era d’estate [no, è il 17 novembre 1943] e le dirò di più che alora a quei tempi lì (...) posso dire con certezza che c’era un po’ di sbandamento tra i tedeschi. C’erano i tedeschi e i fascisti naturalmente, ma però non erano proprio organizzati come sarebbe stato dopo nel ’44. (...) Non mi fu neanche pericoloso, diciamo così, ad accompagnare... Sì, certamente con tre generali inglesi in bicicletta (...) c’era un po’... però, io, siccome in bicicletta andavo molto forte, io se mi fossi trovato in difficoltà... Sapevo che i generali non avrebbero fatto... ma è andata bene ecco. (...) Io sono partito da Cesena con tre generali, senza staffette né davanti né didietro e naturalmente andavo ad un passo abbastanza [sostenuto]. Sì, io ero davanti e loro erano di dietro e ogni tanto voltavo l’occhio per vedere se loro mi stavano dietro, perché dovevo cercare di ritornare anche a casa [prima del coprifuoco] e quindi [loro] dovevano andare. Quando fui in prossimità di Forlimpopoli vedo questa massa di gente... ma io non sapevo di che cosa si trattasse all’inizio. Allora i tre generali (…) se ne accorsero di tutta questa gente. Un po’ [erano] anche impauriti, perché dicevano “Cosa sarà successo? C’è un posto di blocco?”. Feci cenno a questi generali di fermarsi. Come si fermarono io me ne accorsi che c’era stato un incidente casuale. C’era un biroccino… C’era questa gente… C’erano qualche tedesco. Allora (…) dissi (...) qui mi voglio far passare per un congiunto di loro… Allora inventai questa cosa. Feci cenno ai generali che venissero avanti e allora quando vidi che i generali venivano avanti io feci un gesto disperato per far capire... lasciai, buttai per terra, la bicicletta ... e... e... e guardai il carrello… il carrettino lì, da contadino (…) feci alzare la coperta e vidi la faccia di uno sconosciuto. (...) Io sapevo che non era. Però, passati i generali io continuai... Allora uno di loro, non so chi fosse, mi batterono le spalle per farmi capire… Vedi che non è il tuo [parente] (…) Ma io feci una parte proprio da commediante cosi... (...) intanto, erano a piedi non erano in bicicletta, questi generali, montarono su in bicicletta molto, molto più avanti nella svolta di Forlimpopoli. Allora loro [i generali] non avevano capito [cosa era successo] (...) e io spiegai a [Antonio] Spazzoli (…) come era avvenuto. [Il] perché. Loro [a] ridere, ridere, questi generali (...) [Io li portai a Forlì] In casa di [Guido] Gardini (...) e in casa di Gardini c’erano sette o otto (…) c’era [Antonio] Spazzoli (...) era proprio in casa di Gardini che io ho portato questi generali, come li ho lasciati lì (...) io li ho salutati, ho augurato a Spazzoli un buon lavoro “Tanti auguri!”, ci siamo stretti la mano, i generali mi hanno abbracciato, mi hanno stretto la mano (...) poi sono partito in bicicletta. (Werther Ferrini -1983)
Andava dunque Werther in bicicletta, facendo da guida per l’ultimo tragitto ai tre generali. (…) mentre marciava in testa, vide la strada bloccata dai tedeschi. Con una mano fece cenno ai fuggiaschi di fermarsi, mentre lui avanzava con l’aria di chi va a curiosare. Steso in mezzo alla strada c’era un morto. Chiese in dialetto ai presenti, e seppe che si trattava di uno sconosciuto travolto da una macchina, in attesa del giudice italiano, i soldati tedeschi controllavano il traffico, chiedendo i documenti a chi transitava sulla strada. Sempre fingendo di curiosare, Werther tornò dai generali e avvertì O’Connor di tenersi pronti a passare, non appena avessero visto la strada libera. Dopo di che si lanciò in bicicletta come un matto, facendosi largo tra la folla urlando, finché fu vicino al morto e vide che era persona anziana. Allora si precipitò sul cadavere singhiozzando: “E mi ba!… E mi ba!…” (…) La folla si accalcò, ci furono esclamazioni e grida, i tedeschi accorsero… e i generali passarono indisturbati. (Da: 1943-45 : storie ai margini della storia / Anonimo Romagnolo [Pietro (Rino) Spada]. – Milano, 1984)
A Forlì andammo a casa del signor Gardini ma dovemmo andarcene subito dopo cena, perché all’improvviso venimmo a sapere che stava per essere ispezionato il magazzino; egli era sospetto sia ai fascisti che ai tedeschi. (…) Fummo accolti allora da un altro buon amico, il signor Utile [Domenico Utili] (…) Di qui andammo in un vero rifugio, una villa alla periferia di Forlì, di proprietà del signor [Antonio] Spazzoli. (Da: Autobiografia di un soldato : pagine dal diario del tenente generale Philip Neame. In: La Romagna e i generali inglesi : 1943-1945 / a cura di Ennio Bonali e Dino Mengozzi. – Milano : Angeli, c1992)
I generali, a Forlì, furono alloggiati a casa di Antonio Spazzoli, dove rimasero per sette giorni. Poi, da lì, sempre in bicicletta, si diressero verso la foce del Savio, dove era stato stabilito il punto per l’imbarco. Anche questa volta all’appuntamento non si presentò nessuno. Il 24 mattina arrivarono da Pozzo Alto Ferguson e il capitano Spooner, sfiniti per il viaggio in bicicletta, e in una sola tappa. Arrivò poco dopo, da Pesaro, l’ingegner R.[uggero] C.[agnazzo] su una macchina da piazza (…) Lo accompagnava E.[zio] G.[alluzzi] di Cattolica, ricercato dalla polizia per aver organizzato in quel porto il primo imbarco di R.C. Al cadere della notte giunsero Neame, O’Connor e Boyd, pure in bicicletta provenienti da una casa colonica presso il torrente Bevano, ci avviammo in direzione della costa, per una squallida contrada di bonifica, spesso affondando nel fango e nell’acqua fino ai fianchi. Alle 22, giungemmo sul punto prestabilito, a nord della foce, dove ci aspettavano due pescatori. (Bruno Vailati in: I generali inglesi clandestini a Cervia / Giovanni Vicari. – Verrucchio : Pazzini, 1990)
Il 23 novembre andammo in bicicletta a Cervia, una pedalata di due ore, arrivammo al tramonto. Per due ore e mezza camminammo verso la spiaggia, attraverso chilometri di palude e di viottoli allagati. Una camminata terribile nel buio, con l’acqua fino alle ginocchia, in mezzo al fango che a momenti strappava le scarpe. Sfortunatamente il punto che la “Forza A” aveva scelto per mandare la nave era probabilmente il posto più controllato della costa adriatica. Tutt’intorno c’erano posizioni militari tedesche, posti di osservazione e vedette. Di conseguenza ci dovemmo spostare in un punto della costa un miglio e mezzo più in su e dovemmo mandare un ufficiale britannico e uno italiano al largo con una barca a remi, all’appuntamento convenuto. Essi continuarono a lanciare i segnali luminosi prestabiliti, ma senza risultato alcuno (…) alla luce incerta dell’alba (…) tornammo in bicicletta a Cervia infreddoliti. (Da: Autobiografia di un soldato : pagine dal diario del tenente generale Philip Neame. In: La Romagna e i generali inglesi : 1943-1945 / a cura di Ennio Bonali e Dino Mengozzi. – Milano : Angeli, c1992)
Ora io vidi questi ufficiali-generali, riferii loro del piano di salvataggio che si era concordato a Bari con la “A” force, costoro furono portati a Milano Marittima all’albergo “Mare e Pineta” e all’appuntamento del 24 ci recammo puntualmente alle foci del Savio con notevole disagio perché faceva freddo, perché le foci del Savio sono una enorme palude, ecc. ed io andai in mare a fare i segnali convenuti e non venne nessuno perché ci accorgemmo che era in corso una grossa manovra antisbarco alla quale ci trovammo inopinatamente mescolati con aspetti grotteschi e drammatici al tempo stesso come spesso accade nella vita. Cioè: noi in barca con un ufficiale inglese in divisa da capitano – regolare: Kaki – facemmo dei segnali luminosi – (…) e vedendo delle [barche] che ci passavano vicino gridando ordini in tedesco e credendo che fossimo dei loro, con degli slovacchi a cavallo che correvano lungo la riva. Cose, ripeto, inenarrabili (…) Quindi ritornammo faticosamente, bagnati, morti di freddo all’Hotel “Mare Pineta” attendendo l’appuntamento del 28 al quale regolarmente non venne nessuno. (Dall’intervista di Roberto Maltoni a Bruno Vailati. Roma, 1976 – ISRFC 3/14 1539)
Il gruppo ritornò a Milano Marittima, dove si rifugiò nelle ville rimaste abbandonate e attese il giorno del secondo appuntamento, il 28 novembre. Al loro sostentamento provvide Ettore Sovera, proprietario dell’albergo Mare e Pineta. Fummo alloggiati in una villa disabitata a Cervia e ci fu mandato cibo da un albergo delle vicinanze, di proprietà del signor Sovera [Ettore] (…) mentre stavamo nascosti in questa villa, una volta un gruppo di tedeschi, in cerca di alloggio, vennero al cancello del giardinetto e stavano per entrare in casa. Li distrasse la signora Tellesio [Gabriella Sanders, moglie di Giovanni Telesio] (…) attraversò di corsa la strada, invitò i tedeschi a bere qualcosa in casa sua e poi li mandò a cercare alloggio altrove. (Da: Autobiografia di un soldato : pagine dal diario del tenente generale Philip Neame. In: La Romagna e i generali inglesi : 1943-1945 / a cura di Ennio Bonali e Dino Mengozzi. – Milano : Angeli, c1992)
In giornata, giunse sul posto una divisione germanica ippotrainata che requisì tutte le abitazioni vacanti. Dopo aver cambiato alloggio per due volte, uscendo dalla porta posteriore pochi istanti prima che i tedeschi forzassero gli ingressi principali, decidemmo finalmente di alloggiare gli inglesi presso l’albergo Mare e Pineta, dove aveva sede la mensa tedesca e slovacca. Potettero per vari giorni riposarsi tranquillamente. Il direttore amico sottraeva per loro, dalla mensa sottostante, i piatti migliori. (Bruno Vailati in: I generali inglesi clandestini a Cervia / Giovanni Vicari. – Verrucchio : Pazzini, 1990)
Anche l’appuntamento del 28 andò a vuoto e il gruppo ritornò a Milano Marittima. Da lì, i generali, affidati a Ferruccio Boselli, in contatto con i Gap di Cesena, si diressero verso la campagna retrostante. Il 28 notte ripetemmo l’operazione (…) ma senza miglior risultato. Tutta la notte fummo disorientati dalle luci e dai razzi di una manovra aeronavale notturna nella quale ci trovammo improvvisamente inseriti, colla nostra barchetta a remi. (Bruno Vailati in: I generali inglesi clandestini a Cervia / Giovanni Vicari. – Verrucchio : Pazzini, 1990)
Tornammo a Cervia e fummo nascosti in un’altra villa disabitata. Questa volta eravamo nel bel mezzo di un’area dove erano acquartierati i tedeschi. Ci fu un altro allarme grave: qui, infatti, proprio il giorno del nostro arrivo, l’ufficiale tedesco addetto agli alloggi venne proprio alla nostra villa e bussò alla porta. (…) In questa occasione lo stesso signor Sovera stava in giro di perlustrazione intorno alla villa per proteggerci. Andò dal tedesco e gli disse che, nel giro di un’ora, gli avrebbe potuto procurare la chiave della villa, se i tedeschi fossero stati disposti a tornare più tardi. (…) Venne carponi alla porta sul retro, entrò e disse: “Dovete andarvene immediatamente”. (…) Prendemmo le biciclette, pedalammo lungo sentieri nella pineta dietro Cervia e lì restammo acquattati all’erta fino a notte, quando fummo portati via in campagna, per rifugiarci in una casa di contadini. In questa occasione la nostra guida fu un giovane comunista di Cervia, chiamato [Ferruccio] Boselli (…) Boselli si fece carico di noi e si occupò dei nostri nascondigli. (Da: Autobiografia di un soldato : pagine dal diario del tenente generale Philip Neame. In: La Romagna e i generali inglesi : 1943-1945 / a cura di Ennio Bonali e Dino Mengozzi. – Milano : Angeli, c1992)
I Generali inglesi di passaggio nel cesenate Con i generali inglesi a Cervia che per alcuni giorni sostarono a Canuzzo [dai] Malucelli l'incontro fu chiesto dal CLN di Cervia perche non erano in grado di procurare i documenti falsi un gruppo GAP della 29 Brigata li prelevo nel mulino di Bagnile e li porto nel podere Sbrighi (dett. Palunzen) l'incontro avvenne in un pomeriggio in mezzo ad un campo nella discussione fra inglesi e 2 GAP si affrontò il problema del imbarco alla foce del fiume Savio (il primo era fallito il sommergibile non arrivò, ecco la necessita dei documenti falsi per potersi spostare con un minimo di copertura). Sera fatto tardi e la notte la passarono nella stalla della famiglia Sbrighi, alla mattina dopo furono accompagnati da due GAP dal avv. Comandini che preparo foto e documenti falsi, la notte seguente la passarono in casa di Otello Magnani, alla mattina volevano andare a Forlì da [Antonio] Spazzoli, malgrado il parere contrario di alcuni uomini della 29 GAP e dello stesso Magnani. Giunti a Forli da Spazzoli vi rimasero una giornata pero le cose erano cambiate e non si sentirono sicuri ritornarono a Castiglione di Cervia per avere informazioni dal loro amico Boselli (comunista) che li nascose da un contadino in attesa di essere imbarcati. Nel frattempo giunse a casa Fusconi un maggiore della RAF nipote di Viston Ciorcil [Wiston L. S. Churchill] mi ricordo molto bene alla sera si ascoltava Radio Londra e poi Radio mosca, 3 rulli di tamburo e poi una voce lontana annunciava proletari di tutti i paesi unitevi, parla Mosca parla Mosca. l uficiale inglese si alzo in piedi gridando comunist niente Bono, Bolsevich non bono, per noi era la prima volta che sentivamo da un inglese tanta rabbia direi odio, naque una discussione con mio padre noi siamo comunisti e ti salviamo la vita e lei ci ripaga con accuse infamanti. Il giorno dopo il maggiore fu accompagnato nella zona di Castiglione dove erano nascosti i Generali e dopo pochi giorni si imbarcarono nei pressi di Cattolica e raggiunsero le isole tremiti gia liberate dagl'alleati. Il maggiore dei comand nelle sue memorie ringrazia il mare e pineta e tutti i cervesi che l'anno aiutato, ma in modo particolare il comunista Boselli e Fusconi Alfredo di Ronta per tutto quello fatto per loro a rischio della loro vita e delle famiglie stesse. (Firmato: I GAP della 29 Brigata G. Sozzi. Manoscritto di (Vittorio (Quarto) Fusconi -2001)
Per qualche giorno il gruppo rimase nascosto nella campagna al confine fra Cesena e Cervia. Quindi ritornò nuovamente a Cervia. Neame e O’Connor furono ospitati a casa di Ida Paganelli, Boyd all’Hotel Mare e Pineta. Lì, li raggiunse nuovamente Vailati che li trasportò sino alla villa di Pietro Arpesella, a Riccione, con un macchina presa a noleggio. I posti di blocco tedeschi vennero agevolmente superati grazie ai documenti falsi che nel frattempo erano stati preparati appositamente per loro. Arrivammo in macchina, senza danni, a Riccione, passando posti di blocco tedeschi, rassicurati in certo senso da false carte d’identità italiane che ci erano state procurate e da falsi permessi tedeschi di possedere e guidare biciclette. In questi documenti eravamo descritti come impiegati di una fabbrica di marmellata italiana che lavorava per il tedeschi [l’Arrigoni]. A Riccione abitammo in casa del signor Arpesella. (…) La sua casa, nella quale stavamo nascosti, era a pochi metri, un viottolo appena, dal Quartier generale tedesco. (Da: Autobiografia di un soldato : pagine dal diario del tenente generale Philip Neame. In: La Romagna e i generali inglesi : 1943-1945 / a cura di Ennio Bonali e Dino Mengozzi. – Milano : Angeli, c1992)
Mentre i generali sono a Riccione, Vailati parte per Pesaro,
dove Cagnazzo ha acquistato una barca. I due sono raggiunti da Ferguson e
Spooner ma il mattino del 7 dicembre, mentre tutto è pronto per partire, dal
porto arriva la notizia che la polizia ha fatto piantonare la barca.
Un’ora dopo, la casa di R.[uggero] C.[agnazzo] fino a pochi istanti prima
alloggio suo, di E.[lio] G.[alluzzi] e mio, nonché dei due capitani inglesi,
veniva perquisita e saccheggiata. Lasciammo Pesaro come Dio volle, tra le maglie
di una sorveglianza appositamente approntata, rinunciando a servirci di quella
base di imbarco. (Bruno Vailati in: I generali inglesi clandestini a Cervia /
Giovanni Vicari. – Verrucchio : Pazzini, 1990)
La seconda sera arrivò Cagnazzo (…) con la notizia che l’intero progetto era andato a monte (…) Avevamo perso la speranza e decidemmo lì per lì di andare verso il Sud, a Cingoli, con Arpesella ed un suo amico, l’avvocato Juliani [Celestino Giuliani]. Ci era stato detto che a Cingoli c’era una stazione radio clandestina in contatto con le truppe alleate. (Da: Autobiografia di un soldato : pagine dal diario del tenente generale Philip Neame. In: La Romagna e i generali inglesi : 1943-1945 / a cura di Ennio Bonali e Dino Mengozzi. – Milano : Angeli, c1992)
Venuti a conoscenza del fallimento del nuovo piano, i
generali, su suggerimento di Pietro Arpesella, decisero di andare a Cingoli,
dove era funzionante un collegamento radio con le truppe alleate. In compagnia
di Vailati raggiunsero Cingoli, con la stessa macchina a noleggio che avevano
già utilizzato in precedenza.
Il 10 dicembre prendemmo l’ardire di scendere in macchina a Cingoli ed avemmo un
colloquio con un colonnello italiano e col generale [Ettore] Ascoli, che stavano
organizzando bande partigiane in quella zona. Io stesso mandai un messaggio
radio diretto al generale Montgomery per chiedergli di mandare a porto Civita
Nova una nave da guerra britannica per raccoglierci. Ancora una notte
trascorremmo tre notti scomodissime chiusi in una casa disabitata e il nostro
soggiorno, proprio sopra una stalla, puzzava orribilmente. Tutti noi avevamo
avuto una brutta tosse e raffreddore (…) fu proprio lì che ebbi il mio peggiore
attacco. (Da: Autobiografia di un soldato : pagine dal diario del tenente
generale Philip Neame. In: La Romagna e i generali inglesi : 1943-1945 / a cura
di Ennio Bonali e Dino Mengozzi. – Milano : Angeli, c1992)
Vailati, che non aveva nessuna fiducia in quel tentativo,
lasciati a Cingoli i tre generali ritornò a Cattolica, dove riuscì ad accordarsi
con il proprietario di un motopeschereccio utilizzato per il contrabbando. Il 13
ritornò a Cingoli dove espose ai generali il suo nuovo piano. Il 17 dicembre il
gruppo è di nuovo a Riccione, ospite di Arpesella, in attesa di imbarcarsi.
… lasciato il gruppo a Cingoli per ulteriori tentativi, tornai a Cattolica
assieme ad E.[zio] G.[alluzzi], che in quel porto aveva già organizzato
nell’ottobre l’imbarco clandestino dell’ingegner R.[uggero] C.[agnazzo]. La
situazione locale, fortemente intorbidata in seguito all’episodio, era venuta
normalizzandosi. Al nostro arrivo, i controlli ai posti di blocco e nel porto
non erano maggiori di quanto non fossero altrove sulla costa, e la truppa
tedesca in città ammontava appena a un battaglione. Circostanza importantissima,
i motopescherecci erano ancora autorizzati ad uscire ogni mattina per la loro
attività purché rientrassero al tramonto (…) All’uscita del porto veniva
effettuata un’ispezione pro forma dalla sentinella tedesca di guardia, ma di
solito le barche non venivano perquisite. (Bruno Vailati in: I generali inglesi
clandestini a Cervia / Giovanni Vicari. – Verrucchio : Pazzini, 1990)
… ero venuto a conoscere un uomo di Cattolica che si chiamava Paolo Galluzzi il cui padre era stato a capo di una lega di pescatori – chiaramente un antifascista – ritengo letteralmente comunista della prima maniera, diciamo; anti lettera. Ora, Paolo Galluzzi era un uomo molto pratico, molto organizzato e avendo contatto, appunto con i pescatori di Cattolica, da dove proveniva, mi disse che accadeva spesso che barche di Cattolica uscite a pescare in Adriatico, invece di andare a pescare, attraversavano il fronte, andavano dall’altra parte e portavano messaggi, portavano anche prodotti… c’era una via di mezzo fra l’attività antifascistica e la borsa nera, diciamolo pure: tanto che Paolo mi ebbe a dire: se vogliamo contrabbandare questi generali, lasciamo stare i militari e rivolgiamoci ai contrabbandieri. Entrati in rapporto con questi pescatori, ci incontrammo a Rimini in casa di un signore che si chiamava Arpesella di cui non so molto, credo fosse semplicemente un uomo d’affari, una specie di padrino, diciamo. (Dall’intervista di Roberto Maltoni a Bruno Vailati. Roma, 1976 – ISRFC 3/14 1539)
La mattina del 16 eravamo già pronti e in condizione di comunicare col capitano Ferguson e Spooner a Pozzo Alto. In serata, inviammo a Cingoli un messaggio invitando il generale ed R.[uggero] C.[agnazzo] a raggiungerci, cosa che essi fecero il giorno successivo, giungendo a Riccione in serata. (Bruno Vailati in: I generali inglesi clandestini a Cervia / Giovanni Vicari. – Verrucchio : Pazzini, 1990)
All’ultimo momento sorse il problema di pagare il
proprietario del motopeschereccio, non c’era denaro sufficiente e fu Arpesella a
provvedere, anticipando la somma necessaria. La notte del 18 dicembre, Vailati
andò a prelevare i tre generali con il solito taxi e da Riccione, li accompagnò
sino a Cattolica, al porto, dove si imbarcarono, col favore di una fitta nebbia.
Nella stiva erano ad attenderli Cagnazzo e la moglie, Paolo Galluzzi, i due
ufficiali inglesi, Ferguson e Spooner, che avevano passato le linee per aiutarli
nella fuga, un soldato sudafricano, Macmullen, aggregatosi all’ultimo momento e
il frate camaldolese Leone Checcacci, che sin dall’inizio era stato messo al
loro servizio dal priore dell’Eremo di Camaldoli e che ora, divenuto sospetto ai
fascisti, fuggiva con loro per mettersi in salvo. La nave partì il mattino dopo,
alle cinque, e raggiunse Termoli, oltre la linea del fronte, alle 11 del 20
dicembre.
Nella zona di Rimini avemmo un colloquio con i generali, con questo Arpesella,
c’era Cagnaccio il quale aveva fallito il suo tentativo ed era rimasto bloccato
di qua e si convenne di fare un tentativo di imbarcare tutti sul peschereccio
dal nome fatidico “Dux”. L’organizzazione che curava tutto questo, che aveva
interessi non indifferenti nel contrabbando delle sigarette chiese un compenso.
Compenso che non si poteva pagare per mancanza di mezzi, ma i generali inglesi
firmarono una cambiale che rappresentava il prezzo di questa operazione.
(Dall’intervista di Roberto Maltoni a Bruno Vailati. Roma, 1976 – ISRFC 3/14
1539)
... il generale di corpo d’armata Niam [Neame], il generale Boy [Boyd] e il generale O’Cornell [O’Connor] arrivarono a casa mia non in divisa ma con abiti civili inglesi. Dopo un primo tentativo di fuga miseramente fallito per carenze di organizzazione dell’Intelligence inglese, dopo un paio di giorni il tentativo fu rinnovato. Privi di notizie dal Comando degli Alleati, abbandonammo l’idea del trasferimento tramite l’aiuto dei loro mezzi e decidemmo il tutto per tutto. Prendendo in affitto un peschereccio a Cattolica per centoventimila lire, che fui io a versare. Venne decisa immediatamente la data di partenza, ma avremmo dovuto attendere anche un frate di Camaldoli e due persone amiche dell’ebreo che doveva accompagnare i generali. Quindi il trasferimento non sarebbe più stato limitato ai tre generali, bensì a sette persone in tutto. Di certo non dimenticherò la data del ventisei gennaio 1944 [?], il giorno dell’operazione, trasferimento via mare da Riccione verso Sud. Con la nebbia che impediva di distinguere un qualsiasi oggetto a due metri di distanza, a passo duomo e con il cuore in gola, lentamente, con tanto timore, raggiungemmo il porto-canale di Cattolica, a bordo di due macchine. (…) I momenti più drammatici furono quelli dell’imbarco sul peschereccio, poiché il controllo dei natanti di transito si effettuava a soli sessanta metri dalla guardia tedesca, armata di mitraglie. Si trattava di un militare nazista che si trovava nella garitta, al controllo del traffico dei natanti in entrata ed in uscita dal porto–canale. Il fermo o il lasciapassare si eseguiva a voce: il comandante annunciava il nome del peschereccio, ed era facoltà del militare fermare per l’ispezione oppure dare il benestare. (…) fui rimborsato delle spese sostenute per il nolo del peschereccio, ma solo tre anni dopo e senza interessi. (Da: Diario di bordo : intervista a Pietro Arpesella / Giuseppe Chicchi. – [Rimini?] Pietroneo Capitani, 2000)
Il 17 dicembre tornammo a Riccione, nella villa di Arpesella, (…) Una volta arrivati scoprimmo che, dopo tutto, i piani di Bruno Vailati non erano così avanti come avevamo pensato. Ero furioso per esser stato trascinato via da Cingoli, proprio mentre stavo aspettando una risposta al mio messaggio radio a Montgomery. Proprio per questa ragione trovai molto difficile persuadere O’Connor a tornare al Nord. Ciò nonostante decisi di rischiare il tutto per tutto e di imbarcarci immediatamente. Non potemmo farlo il 17 dicembre perché non riuscii a trovare il danaro per pagare il capitano italiano della nave. Comunque la mattina successiva il signor Arpesella arrivò col denaro: 100.000 lire. Cagnazzo cercò di dissuadermi dal salire su quella barca. Lui e Vailati erano violentemente in disaccordo al riguardo. (…) ma il capitano del peschereccio fu portato al mio cospetto e mi piacque. (…) Presi subito tutti gli accordi perché potessimo salire a bordo (…) Mi piacque anche il modo con cui il capitano ci mise di fronte tutti i rischi, le difficoltà e la franchezza con cui confessò di non conoscere né la navigazione né la costa verso il Sud. Mi fidai fino al punto di consegnargli lì per lì 100.000 lire; anche se questo suscitò la perplessità di alcuni dei presenti. Quella sera avemmo il sospetto che qualcosa fosse andato storto di nuovo: l’accordo era che un taxi sarebbe venuto a prelevarci alle 18,30, invece non arrivò che alle 20,40. Io, O’Connor e Boyd passammo due ore di attesa angosciosa. Alla fine uscimmo nel buio, raggiungemmo il porto di Cattolica, dopo essere stati fermati ad un posti di blocco tedesco e dopo che le nostre carte furono esaminate, e uscimmo dalla macchina ad un miglio dalla nostra nave. Al momento di separaci dal nostro piccolo, coraggioso taxista che ci stava scarrozzando a Nord e a Sud per lunghi viaggi e per molti giorni, con mio grande imbarazzo egli ci abbracciò e ci baciò sulle guance. Questo taxista, dopo la nostra fuga, fu tradito ed arrestato; il suo nome era Alfredo Lisotti. Torturato brutalmente dai fascisti e dalla gestapo non aprì bocca. Rilasciato all’arrivo delle forze alleate, morì subito dopo [a Pennabilli, il 26 dicembre 1944] per il trattamento subito. (Da: Autobiografia di un soldato : pagine dal diario del tenente generale Philip Neame. In: La Romagna e i generali inglesi : 1943-1945 / a cura di Ennio Bonali e Dino Mengozzi. – Milano : Angeli, c1992)
Passammo la mattina del giorno 18 a concordare con gli inglesi le modalità dell’imbarco (…) Verso le 18, già in piena oscurità, partii in macchina col solito autista Lisotti, per caricare i due inglesi di Pozzo Alto. Passai in precedenza presso Pesaro per raccogliere il camaldolese padre Leone [Checcacci] in un monastero che lo aveva fin’allora ospitato. (…) Giungemmo verso le 20,30 ai sobborghi di Cattolica dove gli inglesi e l’ecclesiastico furono affidati a che li accompagnò al porto e li fece cautamente scivolare nella barca deserta. Intanto io proseguivo verso Riccione per raccogliervi i tre generali. Durante la mia assenza salirono a bordo anche l’ingegner R.[uggero] C[agnazzo]. con la moglie e un fortunato caporale australiano capitatoci tra le mani all’ultimo momento. A Riccione ero atteso con estrema ansietà (…) partimmo alla volta di Cattolica intorno alle 21, quando mancava solo mezz’ora al coprifuoco. (…) trovammo Galluzzi ad attenderci (…) Raggiungemmo il peschereccio a due a due, quasi a carponi, senza prender fiato, mentre dalla baracca sulla sponda opposta del canale sentivamo le voci metalliche degli uomini di guardia. Nel sottoponte della barca, umido e buio, raggiungemmo i nostri compagni di viaggio in attesa convulsa. (Bruno Vailati in: I generali inglesi clandestini a Cervia / Giovanni Vicari. – Verrucchio : Pazzini, 1990)
Salimmo a bordo carponi e scivolammo giù dentro quello che aveva l’aspetto dei bassifondi di Calcutta e restammo lì, sdraiati la notte nel cubicolo di quella nave, di quel peschereccio di cinquanta piedi. Il nostro gruppo di rifugiati comprendeva due generali e un maresciallo dell’aria, due ufficiali britannici (Ferguson e Spooner), un soldato sudafricano (Macmullen), il signor Cagnazzo e la moglie, il tenente Bruno Vailati, il signor Galluzzi (…) e per finire padre Leoni [Leone Checcacci] che stava scappando dai fascisti, dopo aver aiutato i prigionieri britannici per molti mesi. Dopo una notte fredda e senza pace (…) alle cinque di mattina del 19 dicembre udii il suono più dolce che si possa immaginare, quando un membro dell’equipaggio italiano mise in moto i motori Diesel e la nave avanzò lentamente verso l’entrata del porto. (Da: Autobiografia di un soldato : pagine dal diario del tenente generale Philip Neame. In: La Romagna e i generali inglesi : 1943-1945 / a cura di Ennio Bonali e Dino Mengozzi. – Milano : Angeli, c1992)