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Dalle Balze a Sarsina per Capanne, Tavolicci e S. Martino

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N.B.  Le notizie sotto riportate sono state reperite su alcuni libri e in vari siti Internet, e da noi liberamente assemblate.

BALZE

Molti di coloro che sono attratti dall'incanto della natura di questi luoghi, forse sono ignari del prezioso patrimonio artistico conservato presso la chiesa parrocchiale di S .Maria Assunta e costituito da 3 importanti opere d'arte: la statua in terracotta della "Madonna col Bambino" di Giovanni della Robbia, il Crocefisso ligneo della fine del Cinquecento, la tavola in terracotta invetriata di Benedetto Buglioni raffigurante la "Madonna col bambino fra i Santi e il miracolo dell'apparizione". Quest'ultima è stata restaurata per il cinquecentenario dell'Apparizione (1994) quando, accanto al masso dove apparve la Vergine, nel cortile del convento di S.Maria dell'Apparizione, è stata innalzata una scultura in ferro a forma di albero testimonianza di tempi moderni e di fede antica.

S. ALBERICO

La data della fondazione non è nota, così come sono poche le notizie sul Santo Fondatore dell'eremo. Gli annali Camaldolesi affermano che S.Alberico visse tra il V e il VI secolo e che fosse Toscano. La tradizione vuole che egli, nobile, avendo scelto di darsi completamente a Dio, si trasferì in un luogo isolato, ricco solo di boschi e di sorgenti, per condurvi una vita di penitenza. Nei primi secoli di vita il romitorio non era nient’altro che una grotta scavata nella roccia che serviva da riparo per i rigidi inverni della montagna. Di S. Alberico, comunque, non esiste alcuna testimonianza documentaria e la sua figura ancora oggi rimane avvolta nella leggenda.

L'Eremo vero e proprio, seppure documentato dal 1049, la tradizione vuole sia stato fondato personalmente da S. Romualdo. Esso fu eretto accanto ad una fonte che lo stesso Santo fece scavare ad un abitante della zona e che ancora oggi è ritenuta taumaturgica perché donò la guarigione ad un bue infermo fonte di sostentamento per la popolazione dell'epoca. Nel 1408l’eremo fu accorpato alla Congregazione Camaldolese.

Tutti gli anni il 29 Agosto, si festeggia la festa di S. Alberico, guaritore dei disturbi di ernia; inoltre all'interno dell'eremo è custodita una reliquia contenente la tibia del Santo, ritenuta taumaturgica per i dolori alle ossa e alla pancia. Di particolare interesse è il grande masso posto all'esterno del luogo santo, famoso per la guarigione dei dolori alla schiena. Curioso è il modo col quale i fedeli chiedono la guarigione: appoggiando sul masso di colore nerastro e di forma irregolare la parte malata, rimangono in quella posizione fino al termine delle preghiere in onore del Santo, invocando così la liberazione dal male.

DON QUINTINO SICURO E LA LEGGENDA DEL SANTO GUARITORE

Nella custodia dell'eremo dall'800 ad oggi, si sono succeduti numerosi eremiti: nel secolo scorso si ricorda don Quintino Sicuro morto nel 1968, per il quale è in corso un processo di beatificazione. Grazie a lui, infatti, sono state eseguite numerose opere di ristrutturazione che hanno reso S. Alberico uno dei più bei luoghi spirituali della regione.

Nacque a Melissano, in provincia di Lecce, il 29 Maggio 1920, quinto di cinque figli, da una famiglia di modesti agricoltori. All’età di 12 anni aveva espresso il desiderio di farsi frate, ma non era riuscito a superare l’esame di ammissione; così aveva deciso di frequentare l’Istituto Tecnico Industriale di Gallipoli. Nel ’39 s’era arruolato nella Guardia di Finanza. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale il giovane salentino partecipa alle operazioni belliche sul fronte greco-albanese, salvandosi miracolosamente dall’eccidio di Cefalonia; in seguito, come partigiano, prende parte alla guerra di liberazione nazionale. Viene catturato dai nazifascisti, ma riesce a evadere in maniera rocambolesca dal carcere e, travestito da prete, raggiunge in bicicletta l’Italia del Sud già liberata. Dopo la guerra Quintino riprende regolarmente servizio nella Guardia di Finanza. È un giovane coraggioso e volitivo, dal carattere esuberante e incline alle passioni, non molto dissimile da tanti giovani d’oggi. Gli piace vestire bene ed essere sempre alla moda, lasciandosi pure travolgere da alcune avventure sentimentali, finché non conosce Silvia, una giovane maestra, con cui si fidanza e fa progetti di matrimonio. Ma c’è come un’inquietudine in fondo al suo cuore che non lo lascia mai, un tarlo interiore che non gli da pace. Poco alla volta egli comprende che la sua strada è un’altra e, a 27 anni, lascia la Guardia di Finanza per entrare nel convento dei Frati Minori di Ascoli Piceno. Vi resta solo due anni. Nell’autunno del ’49 giunge all’eremo di San Francesco presso Montegallo. Si sente chiamato a essere solo con Dio, alla più completa solitudine, che solo la vita eremitica può dare. Da Montegallo, quattro anni dopo, si sposta verso il monte Fumaiolo, prendendo in custodia l’eremo di S. Alberico. Quintino si lega intimamente a questo luogo, che ricostruisce e consacra con il suo esempio, il suo apostolato silenzioso, le dure penitenze, la straordinaria carità. Vi arriva nel ’54, quando l’eremo è solo un rudere abbandonato: in pochi anni lo rimette in piedi, pietra su pietra, con le proprie mani, per farne un luogo dove tutti possano ritemprare lo spirito e cercare, trovandolo, l’incontro con Dio.

In questo modo si realizzava la sua originale, duplice vocazione: di prete ed eremita. Tanti giovani salivano fino al suo eremo per parlare con lui, per confessarsi e avere dei consigli. Don Quintino diventa un punto di riferimento per molti. "Tutta la vita moderna – egli diceva – è un anelito verso Dio, anche se inconscio o non confessato o rinnegato. Il desiderio dell’uomo di oggi di conoscere il futuro, l’ansia di andare sempre più veloce, più lontano e più in alto, l’affanno di scoprire cose nuove, l’ossessione di rendere la vita sempre più comoda e l’aumentata insoddisfazione di tutto, per me sono la manifestazione dell’anelito, del bisogno che l’uomo ha di Dio; gli sforzi che fa, sono per raggiungerlo". In tanti salgono all’eremo attratti dalla presenza del prete eremita, dal mistero che promana la sua vita tutta raccolta in Dio. In quella freddissima gola del Monte Fumaiolo, a oltre mille metri di altezza c’era un uomo che dalla mattina alla sera, nel silenzio del suo eremo, rendeva continuamente grazie a Dio. Un uomo che non dormiva su un materasso, ma sopra una dura tavola, avendo una pietra come cuscino, che viveva della carità degli altri e, spesso, masticava fili d’erba per placare i morsi della fame. Un uomo che nel suo eremo accoglieva tutti, peccatori e sbandati, e per ciascuno aveva una parola buona, che non sapeva disquisire di filosofia o teologia, né conosceva Kierkegaard, o Maritain, o Chardin, però viveva il Vangelo. "Mettiti davanti a Dio come un povero: senza idee, ma con fede viva. Rimani immobile in un atto d’amore dinanzi al Padre. Non cercare di raggiungere Dio con l’intelligenza: non ci riuscirai mai; raggiungilo nell’amore: ciò è possibile". La mattina del 26 dicembre 1968 don Quintino doveva celebrare una Messa al Monte Fumaiolo e benedire l’impianto della sciovia, che si inaugurava proprio quel giorno. Una macchina andò a prenderlo alle scalette di S. Alberico, la strada era tutta ghiacciata poiché durante la notte era nevicato. La vettura arrancava a fatica, e più di una volta i passeggeri furono costretti a scendere e a spingerla sulla strada lastricata di ghiaccio. Quando finalmente arrivarono a destinazione, don Quintino ebbe appena il tempo di caricarsi lo zaino sulle spalle che si accasciò improvvisamente a terra, stroncato da un infarto. Non è una storia molto comune, anzi è probabilmente unica, l’esperienza di vita vissuta dal vicebrigadiere Quintino Sicuro che abbandonò la giubba grigia della Guardia di Finanza per vestire i poveri panni del prete eremita. Qualcuno dei lettori forse arriccerà il naso. Un eremita, e per di più sacerdote? Appare come una contraddizione evidente. Ma nulla, in verità, nella vicenda di questa singolare figura, di cui è in corso da alcuni anni la causa di beatificazione, si presenta con i caratteri dell’ovvietà, della scontatezza. Don Quintino riposa ora in un sarcofago di arenaria, da lui stesso scavato dentro la roccia, appena fuori dall’eremo in cui visse, sul Monte Fumaiolo. Ma il suo spirito è vivo, la sua testimonianza attrae ancora con la forza profetica di una vita, come la sua, interamente donata al Signore. Una vita silenziosa che grida al mondo intero, col suo stesso silenzio, il primato di Dio. Il 1° novembre 1985 il Vescovo di Cesena e Sarsina, Mons. Luigi Amaducci, ne ha introdotto in sede diocesana la Causa di Beatificazione e Canonizzazione, processo che si è concluso il 28 agosto 1991, quindi due anni dopo, nel 1993, gli atti processuali sono stati trasferiti a Roma, presso la Congregazione per le cause dei Santi, in attesa di vederlo presto elevato, come si spera, all’onore degli altari.

LA CELLA: UNO SCORCIO DELLA STORIA DI CAMALDOLI

Il monastero della Cella ("Cella San Johannes inter Ambas Paras" cioè "Cella di San Giovanni fra i due rami del Para" come era originariamente denominato), è documentato per la prima volta (1073) al tempo del pontificato di Gregorio VII (1073-85); nel 1408 insieme all'eremo di S. Alberico, fu aggregato a Camaldoli, sotto cui rimase fino al 1819, quando passò a privati. Al monastero vero e proprio era collegata una unità economica, amministrata da un cellerario. Intorno all'originaria chiesa romanica si intravvede un interessante complesso architettonico; qui i monaci camaldolesi svilupparono una intensa coltivazione dell'abete bianco. Ne sono testimonianza le due segherie ad acqua.

Nel 1819 i camaldolesi vendettero a dei privati tutto il complesso.

Nel 1835 il Granduca Leopoldo II visitando la zona montuosa, fece costruire per gli abitanti la via delle Scalette, che dalla Cella e dall'eremo conduceva alle Balze e di qui a Borgo S. Sepolcro senza passare dall'ostile Stato Pontificio.

CAPANNE

Intorno all’anno 1000, dopo che san Romualdo nel 986 fondò il monastero della "Cella San Johannes inter Ambas Paras", non distante dalla Cella, ai margini della foresta, ma sempre nei possedimenti del Monastero, ad una quota più bassa, dove le abbondanti nevicate invernali erano più mitigate, si insediò il primo nucleo abitato di Capanne. Erano tagliaboschi e segantini che prestavano la loro opera nella segheria ad acqua dei Monaci, impiantata per la lavorazione del legname che si ricavava da un’estesa abetaia.

E la "capanna" di legno che avevano per dimora è il toponimo di "Capanne". A poco a poco, con la crescente attività del Monastero della Cella, si ebbe un’espansione demografica, si costruirono abitazioni in pietra attorno alla Cappella (Oratorio di San Rocco) eretta dai Monaci, nacquero delle specializzazioni nelle attività a supporto del primario come falegnami, muratori, calzolai. Tutto faceva capo al Priore del Monastero della Cella il quale però doveva sottostare al Priore di Camaldoli anche se la Cella era compresa nella diocesi di Sarsina.

Nel terre limitrofe spadroneggiavano i nobili Faggiolani, tra cui degno di nota è Uguccione della Faggiola (1250-1319). L’anno 1404 Jacopo Salviati conquisterà per la Repubblica Fiorentina questo territorio e sarà costituita la Podesteria di Verghereto, attuale comune.

Nel periodo dal 1000 al 1500 in queste zone, povere ma strategicamente importanti, si svolsero lotte e contese sanguinose per il possesso dei vari feudi, sorti per concessioni pontificie, imperiali e della Repubblica Fiorentina.

Con la signoria dei Medici e degli Asburgo-Lorena nel Granducato di Toscana, vennero messi a tacere i vari feudatari, ma presero campo le rivalità tra i vari comunelli, balìe, leghe e gli odi municipali raggiunsero il culmine. Ad accrescere questo stato di disagio nella popolazione, sopraggiunsero gravi calamità: le inondazioni e frane del 1634 che cambiarono la fisionomia del territorio; le epidemie di tifo degli anni 1554, 1622, 1732.

Con il decreto di Pietro Leopoldo I Granduca di Toscana del 1774, che aboliva i comunelli e le balìe, le contese in parte si fermarono e la popolazione potè godere di meno sofferenze. Furono definiti meglio i confini tra Stato Pontificio e Granducato ponendo dei termini in pietra tuttora esistenti. Il percorso tortuoso della via Capanne-Balze faceva sì che le merci dovessero essere assoggettate al pagamento della dogana allo stato Pontificio; questo fu risolto nel 1835 dal Granduca Leopoldo II, il quale visitando l’eremo di Sant’Alberico, la Cella e le Vene del Tevere ed accogliendo la richiesta degli abitanti della zona, fece costruire la via delle scalette, nel territorio granducale, migliorando in tal modo il collegamento Capanne-Balze-Sansepolcro.

Nel 1860 arrivò l’Unità d’Italia e la zona di Capanne rimase unita alla provincia di Firenze fino al 1923, quando sotto il governo di Mussolini, passò alla provincia di Forlì nella regione Emilia Romagna.

Complessi e molteplici fenomeni di tipo sociale ed economico hanno fatto sì che nel corso dei secoli queste zone montane si siano andate spopolando, non tanto per la mancanza di attaccamento di questa gente per la loro terra, ma per la mancanza di serie alternative che potessero trattenere sui monti una popolazione soggetta ad una economia povera e ad un tenore di vita non troppo confortevole.

Ai giorni nostri, un’alternativa per fermare questo spopolamento o addirittura per invertirne la tendenza, ci sarebbe, anzi già esiste, è il turismo poiché questi luoghi sono incantevoli ed ancora incontaminati.

La Chiesa di San Giovanni Battista e San Rocco

Nel 1819, quando i Monaci Camaldolesi vendettero a privati cittadini, il Monastero della "Cella S. Johannes inter Ambas Paras", la parrocchia venne trasferita a Capanne presso l'esistente oratorio di San Rocco e la prima chiesa parrocchiale, con relativa canonica, fu eretta nell'area dell'oratorio medesimo, nell’anno 1833, parroco Don Luigi Bigi. L'attuale chiesa è stata eretta negli anni 1914-19, parroco don Francesco Santolini. Lo stesso complesso è stato, a più riprese, restaurato ed adeguato alle nuove esigenze, al tempo dell'attuale parroco Mons. Berardo Casini, titolare dal 1949.

All'interno della chiesa, oltre alle tre vetrate istoriate dal pittore senese Oscar Staccioli ed eseguite dalla Vetreria Diana di Siena, sono posizionati, sopra i relativi altari, due quadri, olio su tela, di cm 160x120 anno 1954, del pittore bresciano Pietro Milzani, raffiguranti la Madonna e San Rocco. Il quadro della Madonna è una copia della "Madonna del Suffragio" di Guido Reni, situato nella chiesa di San Bartolomeo a Bologna.

Il campanile è dotato di due campane:

campana grande donata dal Granduca di Toscana Leopoldo II (1835), fonderia Giuliano Moreni e Carlo Nebos di Firenze; diametro cm 55; altezza con corona cm 65; peso 105 kg; nota sul RE naturale; figure: calice Eucaristico, Assunzione di Maria Vergine in cielo;

campana piccola proveniente dal monastero della Cella. Fonderia Gabriele Babini di San Piero in Bagno, anno 1756; diametro cm 40; altezza cm 43; peso 40 kg; nota LA naturale; figura: Madonna in preghiera.

CASTELPRIORE

Del castello che nel 1220 passò dall’Abbazia del Trivio alla Chiesa Sarsinate e, nel 1351, a Firenze, resta solo il terrapieno, cui si addossano le case che risalgono al Sei-Settecento: a questa epoca appartengono l’edificio con parete curva contenente il forno e con la finestra ad architrave di tipo triangolare e quello che ospita insieme pozzo e forno, con motivi decorativi in arenaria; interessanti le coperture in arenaria a lastre che sottolineano l’andamento irregolare degli edifici (da "Gli insediamenti rurali nelle vallate del Savio, Rubiconde, Uso" – Amministrazione Prov. Di Forlì 1976).

Interessante la quercia secolare sulla strada per Pereto: altezza: 24 m - diametro: 162 cm

TAVOLICCI

Eravamo bambini dei monti

con scarsi giochi e poche gioie

gioco e gioia era stare dall'alba

davanti alla casa di sassi

ad aspettare il tramonto.

Era gioco badare alla pastura,

era gioia il frumento a mietitura.

Verdi nudi pascoli,

bagnati dalle nuvole d'autunno:

un primo piovere sulle foglie,

un odore amaro nella polvere.

Noi non riconoscemmo facce d'uomini

in quelli che ci uccisero

sul petto delle madri uccise.

Sperammo – e lo sperò tutto il mondo –

che morissero per fiamme di fulmini

dentro una bufera deserta.

Furono invece mani di carne

a dirigere il fuoco, ed occhi aperti.

Noi non riconosciamo legge d'uomini

in quelli che adoprarono le armi

sopra le nostra ossa innocenti.

Oggi veniamo dai prati

strani della memoria,

entriamo nelle lacrime stanche

di chi piange ancora per noi:

siamo antichi come la terra,

giovane come le stagioni.

Noi non riconosciamo atti di guerra

a coloro che vennero soldati

contro la nostra piccola infanzia.

Viviamo nelle notti senza sonno

di quelli che calarono i pugnali

dentro la nostra forza.

Ad essi noi neghiamo vita d'uomini,

                    sguardo e amore di padri.

Renata Viganò: Bambini di Marzabotto

 

L'eccidio di Tavolicci si verificò il 22 luglio 1944 nella piccola frazione montana appenninica situata nel comune di Verghereto, in provincia di Forlì-Cesena. Il 22 luglio 1944, i nazi-fascisti trucidarono 64 civili, di cui 19 bambini di età inferiore al 10 anni, e poi donne e anziani. Il più vecchio si chiamava Domenico Baccellini, di 85 anni, mentre il più giovane era Pietro Gabrielli, che aveva solo 14 giorni.

Le vittime furono sorprese all'alba e rinchiuse in una casa al centro del paese, dove vennero arse vive. I capi famiglia, una decina, dopo essere stati costretti ad assistere al massacro dei familiari, furono condotti nella vicina località di Campo del Fabbro, dove furono torturati e poi uccisi. Nel tragitto i reparti operanti continuarono la rappresaglia, incendiando le case e uccidendo le persone che trovarono.

Pochissimi furono i superstiti, che riuscirono a salvarsi perché creduti morti, oppure perché fuggirono da una finestra, durante l'incendio della casa.

Le motivazioni e gli artefici dell'eccidio sono stati a lungo sconosciuti e oggetto di discussione. I documenti storici sono fra loro contrastanti. Le fonti ufficiali avevano attribuito la responsabilità a militi fascisti e a elementi delle SS tedesche. Un appunto riservato per il Duce attribuiva l’eccidio a militi fascisti travestiti da tedeschi; è stata pure ventilata l’ipotesi di gruppi di sbandati slavi. In una lettera all'ambasciatore tedesco, Mussolini accusò le SS di aver ucciso circa 70 persone a Tavolicci, accusa respinta in alcuni documenti dell'esercito tedesco, che addossavano la responsabilità a reparti della GNR di Sant'Agata Feltria e a un distaccamento di SS italiane. Anche il processo tenutosi presso la Corte d'Assise straordinaria di Forlì, nel 1947, si concluse con un nulla di fatto.

La ricostruzione più accurata dell'eccidio, che comprende le testimonianze dei sopravvissuti e un'interpretazione delle motivazioni, elaborata attraverso l'analisi dei documenti storici e delle fonti orali, è stata fatta da Roberto Branchetti e dai ricercatori dell'Istituto Storico della Resistenza di Forlì-Cesena e pubblicata nel volume: Tavolicci e l'area dei Tre Vescovi. Una comunità pietrificata dalla guerra.

Nel 2004, David Becchetti, Antonio Scaramella e Daniel Visintin realizzarono sulla strage il documentario 22 Luglio 1944: una memoria, andato in onda su Planet (circuito Sky).

I documenti più recenti, non più secretati dalla fine del 2004, hanno finalmente individuato la responsabilità materiale dell'esecuzione della strage da parte del IV battaglione di Freiwilligen Polizei Bataillon Italia - Battaglioni autonomi della Polizia repubblicana.

Per questi fatti, con un decreto dell'8 marzo 2001, il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, ha conferito la medaglia d'oro al merito civile al Comune di Verghereto con la seguente motivazione:

«Ritenuto nascondiglio dei partigiani, durante l'ultimo conflitto mondiale, fu oggetto della feroce e cieca rappresaglia dei fascisti e dei tedeschi che trucidarono sessantaquattro suoi cittadini in maggioranza anziani, donne e bambini, distrussero l'intero centro abitato, causando un gran numero di feriti»

SARSINA

Tenacemente aggrappata ai fianchi di un'alta collina di sedimenti fluviali che domina la valle incisa dalle acque del Savio, Sarsina deve la sua nascita alla sua collocazione geografica, strategica per i collegamenti tra Tirreno ed Adriatico. La sua fondazione si deve presumibilmente alle popolazioni umbre che ne fecero un avamposto per difendere le località limitrofe dalle popolazioni celtiche della pianura. Nel 266 a.C. fu, comunque, conquistata dai romani, che ne fecero un loro Municipio e lasciarono testimonianze di un periodo di grande fulgore. Nel V secolo dopo Cristo subì la devastazione da parte dei barbari Visigoti ed Eruli. Soggetta all'Esarcato di Ravenna nel VII secolo, ebbe un lungo periodo di relativa tranquillità, essendo fra l'altro, sede di Diocesi vescovile. Tornò nelle contese dal 1200 ai primi anni del 1500, oggetto di brame e battaglie fra Feudatari e Signori (nel 1371 viene descritta come quasi in rovina). Nel 1503 cadde in possesso di Venezia per poi passare al Papato dal 1509. Nel 1849 i sarsinati si considerano parte della Repubblica Romana. Nel 1860 una spedizione di "cacciatori" (corpo ausiliario) al comando di Luca Silvani, nativo di Sarsina, si mosse per annettere il Montefeltro al Regno d'Italia. Per il passaggio del fronte nella seconda Guerra Mondiale e per una rappresaglia tedesca, Sarsina fu insignita della Croce al valore militare.

San Vicinio e Plauto

Un santo e un drammaturgo collocano Sarsina sul sentiero della storia. Il santo è il taumaturgo del venerato collare scaccia-demonio, S.Vicinio; il drammaturgo è quel Tito Maccio Plauto che ha gettato le basi della commedigrafia latina e moderna.

Del santo esorcista si sa che proveniva dalla Liguria e che resse la diocesi sarsinate per 27 anni e tre mesi, tra III e IV secolo. Dalle notizie che ci rimanda un anonimo agiografo del XII secolo sappiamo che giunse a Sarsina nel periodo della persecuzione di Diocleziano e fu chiamato al suo ruolo di presule da due angeli bianchi mentre viveva da eremita sul monte Musella ora chiamato Monte di S.Vicinio, a 10 chilometri da Sarsina. Poesia e leggenda infiorano la biografia del primo vescovo che operò in vita numerosi miracoli riportati fino a noi dalla voce popolare e tracciati in didascalici dipinti oggi custoditi nella cattedrale sarsinate. Ma i prodigi che richiamano ancora oggi folle di fedeli sono quelli relativi alla guarigione degli indemoniati.

Poco si sa della vita di Plauto (nato a Sarsina nel 254 a.C e morto a Roma nel 184 a.C.), pare che avesse perduto in commerci il danaro guadagnato nella sua attività di traduttore di greco e forse anche attore e regista e perciò si fosse rassegnato a girare la macina di un mulino. Durante quel periodo, ripreso dall'amore per il teatro e mosso dal desiserio di migliorare la sua posizione, attese alla composizione delle commedie Saturio e Addictus che gli procurarono plausi e danaro consentendogli di abbandonare l'umile servizio e di dedicarsi al teatro. Ventuno sono le sue commedie di sicura attribuzione (fra quelle più rappresentate Anfitrione, Bacchides, Miles Gloriosus, Pseudolus, Menaechmi). Pur rifacendosi ai modelli della commedia greca, Plauto ha portato sulla scena i molteplici aspetti della vita e della società romana con freschezza e vivacità insuperabili. Ogni estate a Sarsina, in una moderna "Arena Plautina", costruita secondo il disegno di un'arena romana, viene organizzato un ciclo di recite classiche.

 

La Cattedrale di S.Maria Maggiore e S.Vicinio

(Piazza Plauto - Visitabile - Tel 0547-94618)

Imponente edificio di stile romanico, risale al Mille. Sulla facciata, nel diverso colore dei mattoni, si leggono le tracce delle trasformazioni subite nel corso dei secoli. In basso sono visibili gli addentellati di un pronao a cinque arcate che avrebbe dovuto sostenere un terrazzo praticabile e che forse non fu mai costruito. Le arcate sono separate da quattro semi-colonne, sormontate da alcuni capitelli tardo-bizantini (X secolo). Anche il campanile, un po' tozzo rispetto alla facciata, mostra segni di manomissione. In alto, sul lato destro del campanile, una iscrizione marmorea ricorda i lavori di restauro fatti eseguire nel 1770 dal vescovo Giovan Battista Mami. Nell'interno, a tre navate, il soffitto è a capriate. Sono visibili, in molti punti della chiesa, le tracce della pavimentazione originaria e quelle di una cripta demolita. Le tele dedicate ai miracoli di S.Vicinio, quattro dipinti votivi (XVIII secolo), collocate ai due lati della Cappella di S.Vicinio, illustrano i miracoli del Santo e sono tutti opera di Michele Valbonesi di Ranchio che tentò con questi dipinti di dare ordine e rinverdire l'antico racconto agiografico. Anche l'ornamento pittorico della cappella è di Michele Valbonesi. Il ritrovamento della catena di S.Vicinio nel Savio, olio su tela, (1756/1760), illustra il furto ad opera di un girovago e successivamente il ritrovamento del collare che, nonostante il peso, fu ritrovato, secondo la leggenda, che galleggiava sull'acqua. Il ritorno alla libertà del sacerdote Pertaro e la guarigione dello storpio: in questo olio su tela, (1756/1760) Michele Valbonesi illustra il ritorno alla libertà del sacerdote Pèrtaro calunniato presso il vescovo Benno, insieme la guarigione dello storpio di Arezzo. La punizione della mugnaia che aveva offeso S.Vicinio: olio su tela, (1755 circa) dedicato all'avida mugnaia e all'esemplare punizione (un braccio paralizzato) per aver irriso S.Vicinio nella ricorrenza della festa patronale. La guarigione di un'indemoniata ad opera di S.Vicinio: olio su tela, (1756/1760), mostra lo scomposto agitarsi di un'ossessa davanti all'altare. Apparizione della Vergine a S.Vicinio Eremita: olio su tela, (1760) di Michele Valbonesi; vi compare la Madonna col Bambino e S.Vicinio incoronato. Simbolo dei quattro Evangelisti (sulla sinistra del presbiterio), ambone in marmo, opera del XII secolo, raffigura l'angelo di S. Matteo, il leone di S. Marco, l'aquila di S. Giovanni e il vitello di S .Luca. Cristo in trono: lastra marmorea risalente al X secolo; il Cristo è rappresentato tra gli angeli Gabriele e Michele. L'opera proviene dalla Badia di S. Salvatore in Summano.

Il collare di S.Vicinio Custodito da secoli, viene offerto al bacio dei fedeli o racchiuso al collo di ammalati ed ossessi che, secondo le cronache, all'incontro con la "catena", danno luogo a fatti anormali, non spiegati dalla psicologia. Sarebbe tuttavia da attribuire ad una leggenda il fatto che il collare al centro del millenario culto fosse lo scomodo cilicio del penitente Vicinio, curvo in preghiera con una pesante pietra incatenata al collare. Comunque persone colpite da mali inguaribili, da nevrosi psicopatiche e da supposti malefici giungono ogni anno da ogni parte d'Italia ad implorare la salute ed il conforto. All'interno della Cattedrale operano alcuni sacerdoti a cui compete, ma solo su autorizzazione del Vescovo, l'esecuzione degli esorcismi. Ogni 28 Agosto il paese dedica al Santo una festosa e mistica sagra.

Cappella di S.Vicinio

Fatta eseguire nel 1755 dal vescovo Paolo Calbetti a chiusura della navata di destra della Cattedrale, conserva, sotto l'altare, le reliquie del Santo e, dentro al tabernacolo, la taumaturgica "catena".

Il Museo Diocesano di Arte Sacra

(Piazza Plauto - Visitabile su prenotazione - tel 0547-94618)

Ubicato nell'ex palazzo vescovile custodisce una preziosa raccolta di opere d'arte, suppellettili di grande interesse, arredi sacri e i paramenti sacri provenienti dalle chiese della collina e della montagna chiuse al culto. Una collezione di campane, unica in Italia, raccoglie campane provenienti da oratori chiusi o saltuariamente aperti al culto. Fra queste figura la campana della pieve di Montesorbo datata 1348 fusa da "Sacohus da Sassoferrato, Fonditore", attivo nel sarsinate e nelle diocesi dell'Italia centro settentrionale. Un tegolone con bassorilievo di grifo alato è un rarissimo elemento architettonico di arte romanica (sec. XIII) custodito nel Museo Diocesano e in passato appartenuto all'Abbazia di S. Salvatore in Summano, oggi non più esistente, ed un tempo collocata a 5 chilometri ad ovest di Sarsina.

Via Cesio Sabino

La strada è intitolata ad un importante personaggio sarsinate vissuto verso la fine del I secolo, all'epoca dello splendore romano. Cesio Sabino, della nobile famiglia reatina dei Flavi, fu amico di Traiano e Marziale e, assurto all'importante carica di magistrato edile di Sarsina, abbellì la sua città di edifici in pietra e in marmo. La via oggi è caratterizzata da osterie e botteghe che conservano ancora le insegne a tempera sui muri. L'antica contrada collega il lato destro di Piazza Plauto con la SS 71 ed ospita il Museo Archeologico Nazionale.

Il Museo Archeologico Nazionale

(Via Cesio Sabino - Visitabile - tel 0547-94641)

Fondato nel 1890 ed acquistato dallo Stato nel 1959 è la perla di Sarsina. Ricchissimo di pezzi straordinari ed unici è custode dei reperti provenienti da vari scavi o da ritrovamenti occasionali, ma soprattutto da Pian di Bezzo. Qui sorgeva infatti una necropoli romana miracolosamente conservata grazie un sovralluvionamento dovuto ad un lago formatosi (180 d. C.) in seguito allo sbarramento del letto del fiume Savio da parte di una grossa frana nella zona a valle della necropoli. Tale fenomeno ha permesso l'accumulo di uno spesso banco di limo sui monumenti funerari romani che li ha conservati quasi intatti. Gli scavi sistematici in questa zona sono iniziati nel 1927. All'interno notevole il Trionfo di Dioniso, un mosaico, proveniente dal pavimento di una abitazione romana. Il dio è rappresentato sopra un carro trainato da tigri, e accompagnato da un giovane satiro e da Pan. Sulla fascia circolare in otto riquadri sono rappresentati altrettanti animali, e in otto triangoli, uccelli diversi. Agli angoli spiccano le teste alate dei quattro venti. Nei pannelli laterali sono raffigurati personaggi della cerchia di Dioniso. Tutta la scena è racchiusa da un fregio d'acanto, mentre nella parte superiore è visibile una scena di caccia. L'opera, che misura metri 8,90 per 6,30 è collocabile tra il II e il III secolo a.C., ed è stata rinvenuta casualmente nel 1966 poco lontano da Piazza Plauto. Il mausoleo di Rufo, alto 14 metri è il più grande monumento sepolcrale ritrovato nella necropoli di Pian di Bezzo. Il mausoleo rappresenta una delle forme più interessanti dell'architettura romana di tradizione ellenistica. Si compone di tre elementi: la base, l'edicola e la cuspide piramidale. La parte centrale a colonne ha quattro statue, due uomini e due donne. La cuspide piramidale si alza accanto a quattro sfingi che hanno il corpo di animale alato e la faccia di donna con dodici mammelle. Il soprannome Rufo, che dà l'identità al monumento sepolcrale, appare come il dato più certo dell'epigrafe dedicatoria, talmente malridotta, che la lettura non può considerarsi ancora oggi definitiva. Statua di Attis, rivenuta nel 1923 in contrada Ospedale, è alta 150 centimetri. Riconducibile al culto frigio, fa parte del complesso statuario delle divinità orientali. Ridotta in frammenti minuti, forse dai primi cristiani, è stata oggetto di un complesso restauro. Olpe bronzea, di età imperiale, con raffigurazione in rilievo del bambino e dell'oca, è ispirata ad un modello ellenistico del II secolo a. C. Iscrizione funeraria, incisa su stele in pietra: commemora un membro della corporazione dei mulattieri.

Il Mausoleo di Obulacco

(Piazzale Gramsci)

E' un monumento funebre; sotto la copertura a piramide, la porta sta a significare il trapasso: proviene dalla preziosa necropoli di Pian di Bezzo. Eretto a ricordo di Aulo Murcio Obulacco figlio di Annio della tribù Pupinia (primo secolo a.C.), oggi commemora i caduti di tutte le guerre.

I torricini vescovili

(Viale Matteotti)

Inglobati nelle antiche mura civiche (I secolo a.C.), poco oltre il mausoleo di Obulacco, i settecenteschi "Torricini" furono fatti innalzare dal vescovo conte a difesa della sua residenza.

Piazzetta Pisone

Attigua alla Piazza Plauto, ricorda Lucio Pisone il leggendario eroe sarsinate che uccise, a Canne, il cavallo di Annibale. Lungo il suo perimetro si affaccia il palazzo dell'ex Seminario cha dal fronte della piazza lascia intravvedere i giardini interni. E' sede estiva di spettacoli e intrattenimenti.

CALBANO

Nonostante l'impietoso logorio dei secoli e le recenti deturpazioni degli uomini, il borgo di Calbano, chiuso a fortezza nel medioevo, sa offrire al visitatore immagini e sensazioni di tempi lontani.

In cima al colle, che invita all'espansione edilizia la Sarsina moderna, Calbano fu certamente per i Romani, come probabilmente lo era stato prima per gli Umbri, un'area di sicura difesa. Lo attestano i blocchi di arenaria e i numerosi mattoni d'età romana, rosseggianti fra le grigie pietre della cinta muraria medioevale, ancora visibile in molti tratti.

Nel 1267 il vescovo Grazia vi tenne i "comizi generali" per deliberare sui diritti d'investitura e sui canoni enfiteutici.

La Chiesa sarsinate, per concessione dell'imperatore Federico II, era venuta in possesso del Castrum Calbane (antico dominio del vescovo di Ravenna) sin dal 1220, consegnandolo solo, ma per breve tempo, nel 1406 ai bellicosi Malatesta di Cesena. Nel 1371 l'Anglico vi censì 12 "fuochi" e, più o meno, vi dimoravano le stesse famiglie nel 1733 allorché il novello vescovo Vendemini, proveniente da Ciola, sostò presso la residenza turrita del governatore Zambini. Ora la muraglia rimasta del "maschio" continua a spiare Sarsina e gli escursionisti che risalgono la collina ma la seicentesca chiesa di Sant'Antonio, che s'addossa sul fianco, ne attenua l'ardore guerresco. Vigilano, a nord-ovest, l'ingresso alla rocca due torri circolari che, mozzate ed avvilite ad usi diversi, si presentano tronco-coniche in basso e cilindriche in alto. Dentro basse abitazioni s'allineano nel perimetro antico e si guardano dai gradini di pietra: ma l'intonaco s'affaccia qua e là minaccioso, nemico.

Ai piedi del promontorio su cui sorge Calbano è stata costruita l'Arena Plautina, teatro all'aperto di circa 1100 posti dove ogni anno si svolge la rassegna teatrale dedicata a Plauto.

La chiesetta di S.Antonio

Di origine seicentesca, collocata nel cuore del piccolissimo paese, è addossata alla muraglia del borgo. Viene aperta occasionalmente per rare funzioni religiose. Dal suo minuscolo sagrato si gode una vista a picco sulla vallata.

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